di Andrea Tornielli (per Vatican Insider)
La risposta inviata in Vaticano il 17 aprile dal vescovo Bernard Fellay sarà esaminata nei prossimi giorni dai cardinali e vescovi nella «Feria Quarta» della Congregazione per la dottrina della fede, quindi la loro decisione sarà sottoposta a Benedetto XVI. Entro maggio si prevede la conclusione del percorso che dovrebbe riportare la Fraternità San Pio X, fondata da monsignor Lefebvre, nella piena comunione con Roma, 24 anni dopo le consacrazioni illegittime che portarono alla rottura e alla scomunica dello stesso arcivescovo tradizionalista e dei quattro sacerdoti da lui ordinati vescovi senza il mandato del Papa. Nel momento in cui sarà divulgata la decisione finale, verrà reso noto anche il testo del «preambolo dottrinale» che la Santa Sede ha sottoposto a Fellay e alla Fraternità, e che il superiore del gruppo tradizionalista ha restituito a Roma proponendo alcune modifiche non sostanziali.
Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le dichiarazioni di alcuni autorevoli esponenti della Fraternità San Pio X, in particolare dell’ala lefebvriana più favorevole al rientro nella piena comunione con Roma. Padre Niklaus Pfluger, primo assistente di Fellay, in una conferenza pubblica Hattersheim, in Germania, ha detto che il superiore della Fraternità nelle attuali circostanze non «considera possibile rifiutare la proposta del Papa», specificando che il volersi estraniare dal desiderio del Pontefice significherebbe «cadere nel sedevacantismo». Pfluger ha chiarito che rimangono dei punti di disaccordo e che la Fraternità rivendica la libertà di criticare alcuni punti dei documenti conciliari. E ha ricordato come già Lefebvre, nel 1988, aveva firmato un accordo dottrinale con la Santa Sede che conteneva «molte più concessioni (a livello dottrinale, ndr) da parte della Fraternità di quelle che Benedetto XVI domanda oggi».
Molto significativo è anche l’editoriale di padre Franz Schmidberger, già superiore della Fraternità San Pio X, che nel numero di maggio del mensile del distretto tedesco scrive: «Se Roma ora ci richiama dall’esilio al quale ci ha costretto nel 1975 con l’abrogazione dell’approvazione» canonica della Fraternità, «e ancor più nel 1988 con il decreto di scomunica» ai vescovi consacranti e consacrati», allora «questo è un atto di giustizia e senza dubbio anche un atto di autentica cura pastorale di Papa Benedetto XVI». Ancor più significativo è l’editoriale di un altro membro storico della Fraternità, don Michele Simoulin, pubblicato nel numero di maggio del bollettino «Seignadou» del priorato di Saint-Joseph-des-Carmes: anche lui torna a parlare dell’accordo siglato da Lefebvre e Ratzinger nel 1988, spiegando che allora la rottura non avvenne a motivo del preambolo dottrinale di allora, ma per un motivo pratico. Lefebvre infatti non si fidò delle rassicurazioni vaticane circa la possibilità di poter consacrare un vescovo suo successore: «Non è dunque su una questione dottrinale, né su quella dello statuto offerto alla Fraternità – scrive don Simoulin – ma sulla data di consacrazione del vescovo concesso, che il processo si è arrestato».
Don Simoulin, rispondendo alle obiezioni interne di quei lefebvriani che non vogliono l’accordo con Roma ricorda che Ratzinger, «divenuto Papa ci ha detto che la messa tridentina non è mai stata abrogata (7 luglio 2007 : «Perciò è lecito celebrare il sacrificio della messa secondo l’edizione tipica del messale romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato»); ha riabilitato i nostri quattro vescovi (21 gennaio 2009); ha accettato che conducessimo discussioni dottrinali per due anni, cose che monsignor Lefebvre non esigeva nel 1988. Non è esagerato dire che monsignor Fellay ha ottenuto più di quanto chiedesse monsignor Lefebvre, senza averne il prestigio né l’autorità morale. Dunque, dovremmo essere più esigenti di monsignor Lefebvre e di monsignor Fellay?». Simoulin conclude ribadendo dunque che la situazione odierna è diversa da quella del 1975 e del 1988, e chi afferma il contrario lo fa perché rifiuta «ogni riconciliazione con Roma» mostrando «forse anche una mancanza di fede sulla santità della Chiesa». «La Fraternità San Pio X non è la Chiesa e non può rispettare l’eredità del suo fondatore che conservandone lo spirito, il suo amore per la Chiesa e il suo desiderio di servirla come figlio che la ama».
Rileggere la parte dottrinale del «protocollo d’intesa» firmato da Lefebvre il 5 maggio 1988 è utile per comprendere parte dei contenuti del «preambolo dottrinale» di cui si è parlato negli ultimi mesi, il cui testo è ancora riservato a motivo della possibilità, prevista fin dall’inizio, di modifiche e formulazioni con espressioni differenti. Il fondatore della Fraternità prometteva fedeltà al Papa, dichiarava «accettare la dottrina contenuta nel n° 25 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II sul magistero ecclesiastico e sull’adesione che gli è dovuta». Per quanto riguarda il dissenso su alcuni passaggi conciliari, affermava: «A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della liturgia e del diritto, che ci sembrano difficilmente conciliabili con la tradizione, ci impegniamo ad assumere un atteggiamento positivo e di comunicazione con la Sede apostolica, evitando ogni polemica». Inoltre, Lefebvre aveva dichiarato «di riconoscere la validità del sacrificio della messa e dei sacramenti celebrati con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa e secondo i riti indicati nelle edizioni tipiche del messale romano e dei rituali dei sacramenti promulgati dai Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II». E prometteva infine «di rispettare la disciplina comune della Chiesa e le leggi ecclesiastiche». Come si vede anche nel 1988, nel documento concordato con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, rimaneva nero su bianco l’esistenza di «certi punti» considerati dai lefebvriani «difficilmente conciliabili» con la tradizione. Ma questo dissenso non avrebbe dovuto impedire la piena comunione. Ventiquattro anni fa gli eventi presero un’altra direzione: ci fu un atto scismatico e ci furono le scomuniche. Ora, quasi un quarto di secolo dopo, quella ferita potrebbe essere rimarginata.
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