Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Scandalo a Villaregia, rimozioni e commissariamento

I fondatori della Comunità Missionaria di Villaregia




Dopo lo scandalo che ha coinvolto i fondatori della celebre comunità missionaria chioggiotta (don Luigi Prandin e Maria Luigia Corona), arrivano i provvedimenti da Roma...

In data 22 maggio 2012, il Pontificio Consiglio per i Laici, dopo approfondita indagine, ha decretato la rimozione dalla carica di presidenti dei fondatori della Comunità Missionaria di Villaregia, padre Luigi Prandin e Maria Luigia Corona, e ha disposto la loro dimissione da membri dell’Associazione con l’ingiunzione di non risiedere in futuro in nessuna casa della medesima. Il provvedimento è avvenuto a seguito di numerose denunce firmate, pervenute al Pontificio consiglio per i laici, riguardanti gravi comportamenti immorali perpetrati nel passato da padre Luigi Prandin nei confronti di alcune missionarie maggiorenni. Tale azione disciplinare colpisce anche la fondatrice, Maria Luigia Corona, perché, pur essendo a conoscenza dei fatti, ha coperto e mentito. Il Dicastero, con il suo intervento, ha inteso assolvere a un dovere di giustizia e dare una risposta fedele alle ripetute esortazioni del Santo Padre Benedetto XVI, che chiede di stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prestando al contempo una particolare attenzione alle vittime e prendendo tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro (Cf. Discorso ai Vescovi dell’Irlanda, 28 ottobre 2006). All'allontanamento definitivo dei fondatori ha fatto seguito la nomina di un Commissario Pontificio nella persona di padre Amedeo Cencini, religioso canossiano, che guiderà la CMV nella fase di ristrutturazione e risanamento sollecitata dalla Santa Sede. Il Commissario, che ha assunto in spirito di obbedienza alla Chiesa l’oneroso incarico, sarà coadiuvato da quattro consiglieri di sua nomina, scelti tra gli stessi membri della Comunità. Il provvedimento della Chiesa è grave, ma oltre a porsi nella linea della verità, con il coraggio e la sofferenza che ciò comporta, è e vuole essere anche un atto di grande fiducia e stima nei confronti della comunità di Villaregia e delle persone, missionarie, missionari, coppie di sposati e tutti quei volontari, che in gran numero e in modi diversi, hanno collaborato in questi anni per l’ideale missionario. La comunità missionaria chiede perdono per tutto ciò e per il turbamento che questo potrebbe provocare in tante persone; essa stessa è profondamente addolorata. Al tempo stesso chiede il rispetto per questa sua sofferenza, mentre riafferma la sua volontà, pur nella consapevolezza della propria fragilità, di continuare a servire il Signore e ad annunciare il Regno di Dio. Il Pontificio Consiglio per i Laici, in questo momento, mentre riconosce in pieno la validità del carisma della Comunità Missionaria di Villaregia, incoraggia dunque i suoi membri a vivere in spirito di fede e di filiale obbedienza alla Chiesa questo doloroso momento e a proseguire con dedizione la loro azione missionaria ed evangelizzatrice. Tale invito si estende anche ai membri aggregati, che a vari livelli collaborano con l’Associazione, secondo i suoi fini.  
Commissario pontificio Padre Amedeo Cencini e Consiglio di Presidenza

L'imposizione dei palli: semplificazioni in vista




di Gianluca Biccini (per l'Osservatore Romano)
Per le celebrazioni papali ancora un piccolo passo in direzione del rinnovamento nella fedeltà alla tradizione: venerdì prossimo, 29 giugno, in occasione della messa per la solennità dei Santi Pietro e Paolo, che Benedetto XVI celebrerà alle ore 9 nella basilica Vaticana, sarà anticipato lo svolgimento del rito di benedizione e imposizione dei palli agli arcivescovi metropoliti, che tradizionalmente avviene in questa circostanza. La cerimonia di consegna della piccola fascia di lana bianca — che manifesta visibilmente l’autorità dei pastori delle maggiori arcidiocesi del mondo nell’unione con il vescovo di Roma — non ha infatti natura sacramentale. Monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, in questa intervista al nostro giornale spiega i motivi della decisione approvata dal Papa. Com’era accaduto nel Concistoro dello scorso 18 febbraio, ancora una volta un rito viene anticipato rispetto alla collocazione precedente nel contesto della celebrazione. Come mai? Anzitutto vorrei precisare che il rito della benedizione e imposizione dei Palli rimane sostanzialmente invariato. Tuttavia, da quest’anno, nella logica di uno sviluppo nella continuità, si è pensato semplicemente a una diversa collocazione del rito stesso, che avrà luogo prima dell’inizio della Celebrazione eucaristica. La modifica è stata approvata dal Santo Padre ed è dovuta a tre diversi motivi, strettamente collegati l’uno con l’altro. Quali sono? Anzitutto si intende abbreviare la lunghezza del rito. Infatti, si darà lettura dell’elenco dei nuovi arcivescovi metropoliti appena prima dell’ingresso della processione iniziale e del canto del Tu es Petrus, al di fuori della celebrazione vera e propria. Poi, quando Benedetto XVI sarà giunto all’altare avrà subito luogo il rito dei Palli. Una scelta che consentirà anche di evitare tempi eccessivi? In pratica — ed è questo il secondo motivo — si preferisce evitare che la Celebrazione eucaristica sia interrotta da un rito piuttosto lungo, il che potrebbe rendere più difficile la partecipazione attenta e raccolta alla Santa Messa. Basti considerare che il numero dei metropoliti si aggira ormai ogni anno intorno ai 45. E quest’anno? Quest’anno son ben 46, anche se due di essi — un ghanese e un canadese — non potranno essere presenti personalmente. Tra loro ci sono due cardinali — Rainer Maria Woelki, di Berlino, e Francisco Robles Ortega, di Guadalajara — e il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. Il Paese maggiormente rappresentato è il Brasile con 7 presuli, seguito da Stati Uniti d’America, Canada e Filippine con 4, Italia e Polonia con 3, Messico, India e Australia con 2. Lei ha parlato di sviluppo nella continuità. Cosa significa? È un richiamo al terzo motivo: attenersi maggiormente allo svolgimento del rito di imposizione del pallio, così come previsto nel Cæremoniale Episcoporum, ed evitare che, a motivo della collocazione dopo l’omelia, si possa pensare a un rito sacramentale. Infatti i riti che vengono inseriti nella celebrazione eucaristica dopo l’omelia sono normalmente riti sacramentali. L’imposizione del pallio non ha invece in alcun modo natura sacramentale.

Lefevriani: spaccature e un futuro incerto





di Andrea Tornielli (per Vatican Insider 
Nel comunicato della Sala Stampa vaticana seguito all’incontro del 13 giugno tra il cardinale William Levada e il superiore lefebvriano, il vescovo Bernard Fellay, si leggeva che quest’ultimo «ha rappresentato la situazione della Fraternità San Pio X». Anche in questo caso, le fonti vaticane invitano a soppesare bene quelle parole. Il cuore del problema, in questi giorni cruciali per il futuro del gruppo tradizionalista fondato da monsignor Lefebvre, non è rappresentato soltanto dal contenuto della dichiarazione dottrinale che il Papa chiede a Fellay di sottoscrivere. È rappresentato anche dalla complicata situazione interna alla Fraternità. Alcuni dei sacerdoti più legati agli altri tre vescovi, Tissier de Mallerays, de Gallareta e Williamson, vanno ripetendo infatti in questi giorni che nel caso di accordo, a seguire monsignor Fellay nella piena comunione con Roma sarebbero soltanto pochi preti della Fraternità. Dunque quelle righe del comunicato vaticano sulla «situazione» interna ai lefebvriani sono particolarmente significative. Fino a questo momento si era sempre pensato che le suddivisioni interne fossero rappresentabili all’incirca così: un 25 per cento di favorevoli all’accordo, un cinquanta per cento di indecisi, un 25 per cento di contrari (tra questi gli altri tre vescovi, come è emerso chiaramente dalla lettera che hanno inviato nei mesi scorsi a Fellay prendendo le distanze da ogni possibile accordo con «Roma»). Nessuno è però in grado di affermare che le proporzioni siano rimaste tali. Dalle dichiarazioni di esponenti lefebvriani, e degli stessi vescovi contrari all’accordo, è evidente che c’è una parte della Fraternità disposta a rientrare in comunione con Roma soltanto se il Papa decide di rinnegare di fatto il Concilio Vaticano II, attribuendo allo stesso Concilio e alla riforma liturgica post-conciliare ogni colpa per la crisi della fede che ha segnato gli ultimi decenni. È da notare poi che la nostalgia per la sofferenza per la situazione di separazione attuale, viene avvertita soprattutto da coloro che avevano conosciuto Lefebvre, che avevano vissuto da vicino le sue battaglie, e che avevano vissuto nella comunione con il Papa prima della rottura del 1988.  
Mentre questa sensibilità sembra albergare in misura inferiore nelle nuove generazioni di sacerdoti. La dichiarazione dottrinale che il cardinale Levada ha messo nelle mani di Fellay il 13 giugno non lascia spazio a nuovi margini di manovra. E appare piuttosto difficile anche ipotizzare una nuova fase di discussioni, dopo che per due anni la Fraternità ha potuto discutere con i teologi della Santa Sede proprio dell’interpretazione autentica del Concilio. Benedetto XVI ha voluto esaminare attentamente il testo finale, e ha tenuto conto delle considerazioni dei cardinali e vescovi della Feria Quarta della Congregazione per la dottrina della fede: durante quella riunione, avvenuta lo scorso 15 maggio, i cardinali hanno sollevato dubbi su diverse modifiche proposte da Fellay al preambolo dottrinale e hanno ritenuto di correggere l’interpretazione di citazioni (in particolare del Concilio Vaticano I), che consideravano inaccettabili. Il Papa ha accolto e condiviso diverse preoccupazioni dei suoi collaboratori. Il testo sul quale è ora chiesto l’assenso in «tempi ragionevoli» al superiore della Fraternità San Pio X rappresenta dunque una proposta sulla quale non sono più possibili emendamenti di sostanza. Che fosse invece possibile una nuova fase di discussione emergeva invece dal comunicato della Fraternità pubblicato dopo l’incontro del 13 giugno, indizio del fatto che il preambolo dottrinale sottoposto a Fellay dalle autorità vaticane presentava ancora delle difficoltà per il superiore lefebvriano il quale, in un’intervista rilasciata al bollettino ufficiale della Fraternità lo scorso 7 giugno aveva affermato: «Roma non fa più di una piena accettazione del Concilio Vaticano II una condizione per la soluzione canonica».

A Pozzoveggiani, tra fede e medioevo




Se addirittura sorse sulla terra Vitaliani dove trovò prima sepoltura Santa Giustina, l'oratorio di San Michele Arcangelo in Pozzoveggiani può davvero essere annoverato tra i luoghi-simbolo dello sviluppo storico della fede cristiana non solo patavina, ma dell'intera terra veneta. 





Secondo tradizione, il martirio di Santa Giustina aristocratica vergine cristiana, si compì ai tempi delle persecuzioni di Massimiano nei luoghi attorno alla Patavium paganeggiante, esattamente all'altezza del ponte di Pontecorvo. Il corpo della martire venne poi inumato in un terreno privato, distante dai luoghi di sepoltura pagani, che pare proprio corrispondere in Pozzoveggiani. La reliquie della vergine martirizzata, nei secoli successivi vennero però trasportate verso Prato della Valle.
I suoi familiari non vollero che fosse sepolta in mezzo alle tombe dei pagani, in Prato della Valle, e poiché possedevano un edificio con giardino extra pomerium la seppellirono nel terreno di loro proprietà extra moenia. Santa Giustina martire rimase sicuramente per un certo tempo sepolta a Pozzoveggiani, come attesterebbe una tomba speciale, in contiguità con il sacello innalzato in onore di san Michele, l’arcangelo che difende, per tradizione, i luoghi cristiani. Il ritrovamento di un pavimento absidato e riscaldato nell’area dell’oratorio di San Michele potrebbe anche riferirsi a una di quelle domus ecclesiae che fiorirono in Italia prima dell’editto di Costantino del 313. Quanto rimase sepolta fuori dalle mura prima di essere portata in Prato della Valle? Il primo che parla della tomba di santa Giustina è Venanzio Fortunato che nel sesto-settimo secolo, nella vita di san Martino, dice: «Se tu passi per Padova fermati a venerare il sacello di Santa Giustina ornato di mosaici in onore di san Martino». È chiara l’allusione alla prima basilica di Santa Giustina e pertanto a quest’epoca la salma era stata portata in città. Quanto prima questo sia avvenuto non è ancora possibile dirlo. (fonte)  
Una traslatio, quella delle reliquie di Santa Giustina che portò prima ad un ascesa del luogo Puteus Vitaliani, che vide l'apice del suo sviluppo nei secoli VI e VII con la costruzione di una chiesa a pianta basilicale sulla quale, nei secoli seguenti ebbe diritto il Capitolo della Cattedrale patavina, per poi decadere, trovando nel secolo XVIII definitivo abbandono.





Oggi, l'oratorio di San Michele di Pozzoveggiani, distante pochi chilometri da Padova, è sintesi delle diverse fasi cronologiche che videro l'ascesa e la decadenza del culto cristiano nell'area.  
La pianta basilicale a tre navate concluse da absidi circolari trovò compimento nel secolo XII su un precedente edificio del VI. Tra il '500 e il '600 la struttura, probabilmente già decadente subì la demolizione parziale delle navate laterali. L'interno è decorato da diversi cicli pittorici che si sono sovrapposti nel corso dei secoli. 
Le ricerche svolte per circoscrivere l’ambito cronologico e stilistico degli affreschi dell’oratorio di Pozzoveggiani hanno portato alla definizione di due diversi momenti storici ed artistici nel territorio padovano. La ricerca inizia con la descrizione delle diverse fasi costruttive dell’edificio ecclesiastico, dalla sua prima conformazione come piccola cappella cimiteriale fino ai secoli della decadenza quando, tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, venne trasformato in oratorio. Il primo ciclo analizzato, dopo una serie di raffronti di ambito generale con affreschi e miniature, si è collocato tra la metà e la fine dell’XI secolo. Non sembra di riconoscere nelle pitture padovane quei caratteri tipici dell’arte carolingia e ottoniana che gli sono attribuiti; anche se è vero che si può parlare , per gli apostoli del sacello, di tipologie ottoniane, è tuttavia più coerente definirne la struttura figurativa come “riutilizzo” o maturazione di quelle tipologie ottoniane che ancora, attorno alla seconda metà e alla fine del Mille, circolavano in special modo nell’ambito delle miniature, attraverso quei modelli definiti di “seconda generazione” proprio perché prodotti in un secondo momento rispetto ai grandi esemplari di Reichenau. Nel corso dell’esposizione ci si è più volte riferiti ad esempi come San Giorgio di Oberzell a Reichenau, la massima testimonianza del genere artistico ottoniano, e a numerose località nordiche e d’oltralpe a diretto contatto con esso; ci si è poi soffermati sui caratteri stilistici della superstite pittura di Cividale che, nonostante precede gli affreschi qui studiati, si considera un valido esempio di arte che ha dietro di sé quella componente classica e monumentale derivatagli dal recupero di elementi tardo-antichi, iniziato con la dominazione longobarda. Con l’esame delle pitture del Veneto e di parte del territorio limitrofo si è poi tentato di ricostruire la situazione storico-artistica durante l’XI secolo, in special modo quella dell’ambito padovano. Gli stretti rapporti che la diocesi patavina intratteneva con l’impero nell’XI secolo, la politica di prestigio perseguita dai vescovi padovani ancora in date avanzate (seconda metà, fine del XII secolo) e la circolazione di modelli ottoniani di “seconda generazione” nel periodo di realizzazione dell’Evangelistario di Isidoro nel 1170, commissionato dai canonici del Capitolo della cattedrale di Padova, hanno indotto a pensare che l’utilizzo di modelli ottoniani avesse il preciso scopo di nobilitare la produzione artistica delle commissioni provenienti dalle istituzioni principali, come appunto il Capitolo. Con queste pitture siamo in un periodo successivo, quando l’edificio originario è stato trasformato in basilica a tre navate absidate. L’impianto strutturale della decorazione dell’abside privilegia un’impostazione bizantina, almeno apparentemente questa è l’impressione che genera la vista del Cristo in Maestà, ma se si osserva nei dettagli e con attenzione l’intera composizione, non si tarda a riconoscervi l’emergere di un linguaggio romanico. Il maestro che ha operato nell’abside conosceva con probabilità le opere e i lavori “veneti”, lo confermano i tentativi di “imitazione” di quel linguaggio bizantino orientale presente a Venezia e nelle terre influenzate dal suo dominio culturale. Così come si sono riscontrate vicinanze, d’iconografia e di stile, con i più importanti centri culturali della terraferma nell’agro portogruarese: Aquileia, Concordia Sagittaria, Sesto al Reghena, utili parametri di raffronto per stabilire differenze e vicinanze. La carenza di esempi di pittura del primo XIII secolo per il territorio padovano non ha permesso raffronti significativi, se non con alcuni frammenti quasi scomparsi nella “centrale” chiesa di Santa Sofia a Padova, tuttavia troppo eleganti e riconducibili ad una datazione compresa nella seconda metà del Duecento. Ma è con la miniatura che si sono trovati maggiori punti di contatto e alcuni utili termini per un inquadramento cronologico degli affreschi. Alcuni lavori di maestri veneziani attivi a Roma, eseguiti tra 1200 e 1210, insieme alle miniature più “rozze” di un Lezionario realizzato per il monastero femminile di Sant’Agata a Padova tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, riecheggiano quelle forme e quei motivi bizantini, derivati da modelli di antica ascendenza che troviamo anche nelle prove ad affresco. La presa in esame delle miniature venete del primo Duecento ha portato a considerare le pitture dell’abside opera di un maestro forse padovano, che conosceva l’imponente produzione marciana e che ha realizzato i suoi personaggi a “emulazione” di quel modello bizantino che contribuiva a connotare di un’aura aulica e ieratica tutta la composizione, pur definendo il suo stile personale attraverso un linguaggio a tratti popolaresco. (fonte)






immagini da salvalarte.legambientepadova.it, magicoveneto.it

Moraglia Patriarca: il Pontificale a San Giorgio Maggiore




Meglio tardi che mai. Infatti, con un po’ di ritardo pubblichiamo alcune fotografie (tratte da Facebook) del Pontificale celebrato nella festa di San Giorgio (23 aprile), dal Patriarca Francesco Moraglia presso l’Abbazia di San Giorgio Maggiore in Venezia. 
Ha concelebrato anche Dom Norberto Villa O.S.B, Abate dell'Abbazia di Praglia di cui San Giorgio Maggiore è dipendente dal 2007. Il Pontificale è stato servito dai monaci benedettini dell’Abbazia e dai seminaristi del Patriarcato. 
Intanto Venezia si aggiudica un'altra liturgia Coram Deo nel panorama liturgico "ordinario" della città...















Le immagini sono state tratte dalla pagina Facebook "Abbazia di San Giorgio".

Lefevriani: il passo decisivo




di Andrea Tornielli (per Vatican Insider)
Come anticipato questa mattina da Vatican Insider il dialogo tra la Santa Sede e i lefebvriani è giunto a un passo decisivo. Dopo aver studiato con attenzione il testo del preambolo dottrinale con le modifiche chieste dal superiore della Fraternità San Pio X, Benedetto XVI ha preso la sua decisione e l’ha comunicata al cardinale William Levada, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e al segretario dello stesso dicastero, l’arcivescovo Luis Ladaria Ferrer, durante l’udienza concessa a entrambi sabato scorso. Il testo della dichiarazione dottrinale è stato consegnato dal cardinale Levada nelle mani di monsignor Fellay questo pomeriggio, a Roma, nel palazzo del Sant’Uffizio. Il superiore lefebvriano era arrivato già ieri nella casa della Fraternità San Pio ad Albano laziale. Il preambolo è ancora top secret, ma sarà pubblicato – così era stato assicurato fin dall’inizio – nel caso in cui l’accordo tra la Santa Sede e la Fraternità fondata da monsignor Lefebvre venisse formalizzato. La decisione finale è dunque ora nelle mani del vescovo Fellay: se deciderà di aderire nei prossimi giorni sarà dato l’annuncio ufficiale dell’accordo e la Fraternità San Pio X diventerà una prelatura personale direttamente dipendente dalla Santa Sede. La storia dei burrascosi rapporti tra la Santa Sede e la Fraternità invita a essere cauti: nel 1988 Lefebvre aveva già sottoscritto un accordo dottrinale ma all’ultimo momento decise di rompere le trattative dicendo di non fidarsi delle autorità vaticane e consacrò illecitamente, senza mandato papale, quattro nuovi vescovi, tra i quali Fellay. Da allora molte cose sono cambiate. Oggi il superiore della San Pio X, che ha ribadito il suo pensiero lo scorso 7 giugno con un’intervista sul bollettino ufficiale della Fraternità, sa bene che Benedetto XVI desidera arrivare a una riconciliazione che rimargini la ferita di ventiquattro anni fa. Se Fellay, dopo aver ricevuto la risposta vaticana, firmerà la dichiarazione dottrinale, l’accordo sarà annunciato ufficialmente. Rimarrà invece in ogni caso aperta la questione riguardante gli altri tre vescovi lefebvriani, Tissier de Mallerays, de Gallareta e Williamson, i quali avevano contestato con una dura lettera finita poi sul web il cammino di Fellay verso l’accordo con Roma. Anche nel caso il superiore della San Pio X firmi la dichiarazione dottrinale, le posizioni dei tre vescovi saranno esaminate singolarmente dalla Congregazione per la dottrina della fede.

In Festo Sancti Antonii Patavini





O dei miracoli inclito Santo, 
dell'alma Padova tutela e vanto, 
benigno guardami prono ai tuoi pie: 
O sant'Antonio, prega per me! 

Col vecchio il giovane a Te s'en viene, 
in atto supplice chiede ed ottiene. 
Di grazie arbitro Iddio ti fé: 
O sant'Antonio, prega per me! 

Per te l'oceano si rasserena, 
riprende il naufrago novella lena; 
morte e pericoli fuggon per Te: 
O sant'Antonio, prega per me! 

Per te racquistansi beni ed onore; 
i morbi cessano, cessa il dolore. 
Ove tu vigili pianto non è: 
O sant'Antonio, prega per me!



Feltre, Cattedrale di San Pietro Apostolo, altare di Sant'Antonio da Padova, particolare.

La sacralità più vera



"Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita. Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo" 

BENEDICTUS PP. XVI 
Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, 
7 giugno 2012, omelia

Il microcosmo coronato

L'altare del Santissimo Sacramento nella Cattedrale di Padova



Il baldacchino ligneo che, in alcune chiese (specialmente dell'età della Riforma Cattolica), sovrasta l'altar maggiore o l'altri altari, come quello del Santissimo, nasce verso la fine del XV secolo quale sostituto del ciborio. Si potrebbe pensare che la loro diffusione sia dovuta unicamente ad un mero costume diffuso. In realtà, la costruzione di questi baldacchini rispondeva ad una precisa normativa liturgica (qui e in seguito ci riferiamo, ovviamente, all'ambito della cosiddetta “forma extra-ordinaria del rito romano”, che fu in vigore in gran parte dell'orbe cattolico sino al 1969). Per quanto riguarda questo baldacchino, il Cæremoniale Episcoporum ne prescrive la presenza (1) per l'altar maggiore (2). Qualcuno potrebbe obiettare che la norma vale solo per i vescovi; in realtà, il Cæremoniale Episcoporum si chiama così perché contiene in gran parte prescrizioni che riguardano i successori degli Apostoli, ma le disposizioni ivi contenute obbligano anche i semplici sacerdoti (3). Inoltre, la Sacra Congregatio Rituum provvide a chiarire espressamente che la norma riguardava tutti gli altari (4) di qualunque chiesa. Tuttavia, col tempo queste prescrizioni caddero in desuetudine (5), anche se si ribadì che il baldacchino continuava a rimanere obbligatorio qualora sopra la chiesa vi fossero dei dormitori (si pensi soprattutto alle chiese di ordini e congregazioni religiose) (6). Ma qual'è la ragion d'essere del baldacchino? Perché si decideva di utilizzarlo? Il motivo è soprattutto simbolico: “Un baldacchino forma provvisoriamente o stabilmente un tetto sopra un altare, una statua o il Santissimo Sacramento, per questo rappresenta la protezione simbolica dovuta a ciò che va venerato o adorato. Un ciborium (tabernacolo) o un baldacchino che sormontano un altare hanno la stessa funzione, quella di indicare uno spazio sacro, di delimitare un microcosmo d'eccezione coronato da un cielo simbolico.” (7)   
 
NOTE:  

(1) Tale regola compare già nella prima edizione del Cæremoniale (che fu promulgato da Clemente VIII nel'anno 1600): cfr. ad esempio Cæremoniale episcoporum iussu Clementis VIII pont. max novissime reformatum, Roma, Typographia Medicea, 1600, pp. 56-57. (2) Ecco il testo della norma: “[…] desuper vero in alto appendatur umbraculum, quod baldachinum vocant, formæ quadratæ, cooperiens altare, et ipsius altaris scabellum, coloris cæterorum paramentorum. Quod baldachinum etiam supra statuendum erit, si altare sit a pariete sejunctum ; nec supra habeat aliquod ciborium ex lapide, aut ex marmore confectum. Si autem adsit tale ciborium, non est opus umbraculo, sed ipsum ciborium floribus, frondibusque exornari poterit. ” (cfr. liber I, c. XII, n. 13-14; da Cæremoniale Episcoporum anno MDCCLII cum variationibus anno MDCCCLXXXVI, www.ceremoniaire.net, 2006, pp. 24-25) Traduzione nostra: “Tuttavia sopra l'altare, in alto, venga appeso l'umbraculum (che viene chiamato baldacchino) di forma quadrata, che copra l'altare e la predella dello stesso altare; sia del colore degli altri paramenti. Il quale baldacchino sarà da collocarsi sopra [l'altare e la predella] anche se l'altare fosse staccato dalla parete; ma non se sopra vi fosse un ciborio fatto di pietra o di marmo. Qualora poi vi fosse un tale ciborio, non deve esserci l'umbraculum, ma si può ornare lo stesso ciborio con fiore e fronde.” (3) Cfr. Ludovico Trimeloni, Compendio di liturgia pratica, Milano, Marietti 1820, 2007 (ed. or. 1958), p. 31, ove sono dati anche i riferimenti legislativi in merito. (4) Cfr. Decreto 1966 del 27 aprile 1697, che riproduciamo qui di seguito: “Ianuario Pelusio Archipresbytero Ecclesiæ Cathedralis Civitatis Cotronen. supplicante declarari infrascriptum dubium, videlicet: An in omnibus Altaribus sive Cathedralis, sive aliarum Ecclesiarum, debeat erigi baldachinum, vel in maiori tantum, in quo asservatur Augustissimum Sacramentum. Et S.R.C. respondit: “In omnibus”. Die 27 Aprilis 1697.” (cfr. Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum, vol. I, Roma, Typographia Polyglotta S.C. de Propaganda Fide, 1898, p. 429) Traduzione nostra: “Gennaro Pelusio, arciprete della chiesa cattedrale della città di Crotone, supplica venga spiegato il seguente dubbio, cioè: Se in tutti gli altari, sia della cattedrale che delle altre chiese, debba essere eretto il baldacchino, oppure solamente per l'altare maggiore nel quale viene custodito l'Augustissimo Sacramento. E la Sacra Congregazione dei Riti risponde: “In tutti”. 27 aprile 1697.” Tale decisione venne ribadita a metà del XIX secolo: cfr. Decreto 2912 del 23 maggio 1846 (cfr. Decreta authentica Congregationis Sacrorum Rituum, vol. II, Roma, Typographia Polyglotta S.C. de Propaganda Fide, 1898, p. 335). Qui non lo riproduciamo in quanto il testo si limita sostanzialmente a rimandare al decreto del 1697. (5) “Hæc autem duo Decreta [1966 e 2912] ubique, etiam Romæ, in desuetudinem abierunt” (cfr. Index Generalis rerum occurentium in decretis Sacr. Rituum Congregationis, vol. V, Roma, Typographia Polyglotta S.C. de Propaganda Fide, 1901, p. 35). Traduzione nostra: “Tuttavia questi due decreti andarono ovunque in desuetudine, anche a Roma.” (6) Cfr. il Decreto 3525, comma 2, del 23 novembre 1880. Si chiedeva il permesso di conservare la Santissima Eucarestia in una chiesa sottostante un dormitorio delle Canossiane; al che la SRC diede parere favorevole, con la condizione che “Altari imponatur ampla Umbella, vulgo Baldacchino” (si imponga all'altare un'ampia “umbrella”, volgarmente chiamata “baldacchino”). (7) Cfr. Michel Feuillet, Lessico dei Simboli Cristiani, Roma, Edizioni Arkeios, 2007, p. 17. Bibliografia generale: Mario Righetti, Storia liturgica, vol. I, Milano, Ancora, 2005 (ed. or. 1964), p. 528; Ludovico Trimeloni, Compendio di liturgia pratica, Milano, Marietti 1820, 2007 (ed. or. 1958), p. 259.

Mirano straordinaria



Una Messa "vecchia" in una chiesa "nuova": qualche scatto "straordinario" dalla Parrocchiale di San Leopoldo Mandic in Mirano. La Missa Cantata è celebrata ogni secondo sabato del mese da mons. Vardànega, canonico del Capitolo Cattedrale di Treviso.






Adieu Telechiara




Redazione de Il Mattino di Padova 
«E’ con dispiacere, e solo dopo un lungo esercizio di analisi e discernimento durato alcuni anni, che i vescovi della Conferenza Episcopale Triveneto hanno constatato l’impossibilità di proseguire il sostegno alla ventennale esperienza di Telechiara», sono le prime righe di un lungo comunicato che confermano le voci che circolavano da qualche giorno. Chiude la storica emittente della Chiesa veneta. La crisi e le difficoltà economiche dovute alla mancanza di investitori pubblicitari spengono Telechiara. «Si sarebbe ora reso necessario un notevole investimento quinquennale - dell’ordine di oltre un milione di euro all'anno - totalmente a carico delle singole Diocesi del Triveneto che, con quote diverse, costituiscono la proprietà di Telechiara», spiega il comunicato dei vescovi. Una spesa che non può più essere sostenuta e che spingono la comunicazione ecclesiale a cercare nuove strade, con l’arrivo della televisione digitale e del web. «I Vescovi e le Diocesi del Triveneto ringraziano quanti, nei vari anni, hanno contribuito a quest’esperienza televisiva e confidano che si trovi presto un’adeguata soluzione professionale per il personale attualmente impegnato in Telechiara», conclude il comunicato. A rischio infatti ci sarebbero i posti di lavoro di giornalisti e tecnici che lavorano nell'emittente.

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