Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Febbraio col Concistoro?



di *** (per chiesa.espressoonline.it


Nell'anno che viene, "a Dio piacendo", è previsto il quarto concistoro di Benedetto XVI, con la creazione di nuovi cardinali. E grazie a queste nuove immissioni il numero dei porporati votanti di nomina ratzingeriana supererà per la prima volta quelli di nomina wojtyliana nel collegio degli elettori del papa.
La data più probabile del nuovo concistoro sarà il fine settimana che precede il 22 febbraio, festa liturgica della Cattedra di San Pietro: festa tradizionalmente associata ai concistori ma il prossimo anno non utilizzabile, perché coincidente con il mercoledì delle Ceneri.
In tutti e tre i precedenti concistori di Benedetto XVI – tenuti il 24 marzo 2006, il 24 novembre 2007 e il 20 novembre 2010 – l’annuncio ufficiale è stato dato circa un mese prima e sempre alla fine di una udienza generale del mercoledì: rispettivamente il 22 febbraio, il 17 ottobre e il 20 ottobre di quegli anni. Se questa cadenza temporale verrà mantenuta anche questa volta, si può ipotizzare che i nomi dei nuovi cardinali da creare il 19 febbraio potrebbero essere resi noti alla fine dell'udienza di mercoledì 18 gennaio.
Finora Benedetto XVI ha creato 62 cardinali, 12 dei quali al momento di ricevere la porpora avevano già superato gli ottant'anni. Attualmente ne sono in vita 57 e quelli con diritto di voto sono 46, che diventeranno 45 il 13 gennaio prossimo, quando il cinese Joseph Zen supererà l’età che non consente più a un cardinale di partecipare a un conclave.
In base alle norme stabilite da Paolo VI nel 1973 e confermate da Giovanni Paolo II il numero massimo dei cardinali elettori – cioè quelli che secondo quanto stabilito nel 1970 col motu proprio “Ingravescentem aetatem” avendo meno di ottanta anni hanno il diritto di partecipare a un eventuale conclave – è fissato in 120.
Attualmente i cardinali sono 192. Quelli con meno di ottanta anni ammontano a 109, che scenderanno a 107 il 19 febbraio (oltre a Zen, infatti, avrà compiuto 80 anni, il 6 gennaio, anche il portoghese José Saraiva Martins). Questo vuol dire che al prossimo concistoro i nuovi porporati saranno almeno 13, ma più probabilmente 15 e più, visto che nei mesi successivi del 2012 altri 11 porporati compiranno 80 anni.
Benedetto XVI ha finora superato il tetto dei 120 di una sola unità (è successo nel 2007 e nel 2010). Questa volta quindi le nomine in più potrebbero essere leggermente più numerose, ma sempre di molto inferiori a quelle avutesi con Giovanni Paolo II quando si arrivò – dopo i concistori del 2001 e del 2003 – alla cifra record di 135 cardinali elettori.
Nel Palazzo apostolico sono già cominciate e circolare le liste dei nuovi cardinali, ma quella definitiva verrà stabilità, come sempre, solo pochissimi giorni prima dell’annuncio. Nel concistoro del 2010 metà dei posti cardinalizi venne assegnata ai dirigenti della curia e di altri uffici ecclesiastici romani che prevedono un porporato nell’incarico. Per il 2012 le nomine attese riguardano gli italiani Fernando Filoni (prefetto di Propaganda Fide), Domenico Calcagno (presidente dell’APSA), Giuseppe Versaldi (presidente della prefettura degli affari economici della Santa Sede) e Giuseppe Bertello (presidente del governatorato dello Stato della Città del Vaticano), il brasiliano João Braz de Aviz (prefetto della congregazione per i religiosi), lo statunitense Edwin F. O’Brien (pro-gran maestro dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro) e lo spagnolo Santos Abril y Castello (arciprete della basilica papale di Santa Maria Maggiore). A questi potrebbero essere aggiunti Francesco Coccopalmerio (presidente del pontificio consiglio per i testi legislativi) e/o Rino Fisichella (presidente del neonato consiglio per la nuova evangelizzazione). Per quanto riguarda le diocesi tradizionalmente guidate da un cardinale, sembra che verrà rispettata la prassi che prevede di non crearne uno nuovo laddove sia presente un emerito che non ha ancora superato gli ottant’anni. Un'eccezione, se vi sarà, potrebbe essere fatta per Timothy Dolan, a New York, e per il domenicano Dominik Duka, a Praga, i cui emeriti compiranno 80 anni, rispettivamente, il 2 aprile e il 17 maggio prossimi.
Nella lista dovrebbero entrare i nuovi arcivescovi di Berlino (Rainer Maria Woelki), di Toronto (Thomas C. Collins) e di Utrecht (Willem J. Eijk), il vescovo di Hong Kong (John Tong), nonché in Libano il nuovo patriarca maronita Bechara Rai e in India il nuovo arcivescovo maggiore dei siro-malabaresi George Alencherry. Più complessa la questione delle sedi vescovili il cui cardinale emerito non è andato in pensione ma è stato chiamato a un altro incarico nella curia romana. È il caso di Firenze, di Toledo e del Quebec, i cui "arcivescovi emeriti” (così definiti nell’Annuario pontificio) sono ora, rispettivamente, presidente del pontificio consiglio per la famiglia (Ennio Antonelli), prefetto della congregazione del culto divino (Antonio Cañizares) e prefetto del dicastero per i vescovi (Marc Ouellet). Nel 2010 la prassi di escludere la presenza in una medesima sede di due cardinali votanti venne applicata rigorosamente anche in simili casi. Per il 2012 non sarebbe stata presa ancora una decisione definitiva, anche se sembra prevalere l'idea di confermare questa applicazione rigida. Dovranno attendere un altro turno gli arcivescovi di Los Angeles, Filadelfia, Westminster, Malines-Bruxelles, Torino, Siviglia, Rio de Janeiro, São Salvador da Bahia, Santiago del Cile, Bogotà, Quito, Giakarta, Manila.
Aldilà dei nomi prescelti, rimane il fatto che nel corso del 2012 – con il nuovo concistoro e con i 13 cardinali che supereranno gli 80 anni, due soli dei quali creati durante l’attuale pontificato (Zen e il filippino Gaudencio Rosales) – il collegio degli elettori del papa sarà per la prima volta composto da porporati in maggioranza creati da Benedetto XVI.
Resta fermo, naturalmente, che papa Ratzinger potrà creare il 19 febbraio anche uno o più cardinali “ad honorem”, che cioè hanno già superato gli 80 anni.

Per una Chiesa "senza paludamenti"



Preti disobbedienti nel Natale patavino, col vessillo del Vaticano II (loro).


di Filippo Tosatto (per Il Mattino di Padova)

L’atrio della stazione ferroviaria, pur capace, non basta ad accogliere i fedeli. Giovani, giovanissimi, coppie, famiglie: alle 22 si celebra la messa notturna di Natale, fra display pubblicitari e annunci sonori dei treni in arrivo. Presto però il coro e le chitarre hanno ragione dei rumori fuori scena. Il via vai continua ma diventa uno sfondo. Sul palco, ad officiare, una rappresentanza dei “preti di frontiera del Nordest”.
Dieci parroci, da sempre a contatto con gli emarginati e spesso balzati alle cronache per posizioni eterodosse rispetto al Magistero. Sono Albino Bizzotto (Padova), Pierluigi Di Piazza (Udine, Franco Saccavini (Udine), Mario Vatta (Trieste), Giacomo Tolot (Pordenone), Piergiorgio Rigolo (Pordenone), Alberto De Nadai (Gorizia), Andrea Bellavite (Gorizia), Luigi Fontanot (Gorizia) e Antonio Santini (Vicenza). La Lettera di Natale che hanno sottoscritto chiede una Chiesa «che apra le porte alle donne prete e ai preti sposati»; una Chiesa «povera, senza titoli nobiliari, senza paludamenti e libera dai vincoli di potere»; una Chiesa «che paghi le tasse e chieda perdono agli omosessuali e alle vittime di pedofilia»; una Chiesa più democratica, «luogo di perdono che accolga tutti».
Non sono ribelli ostili, i preti di frontiera. E rivendicano, anzi, l’appartenenza alla comunità ecclesiale. Che vorrebbero diversa, però. Più in sintonia con l’annuncio del Vangelo, più vicina agli ultimi. «La nostra lettera è ispirata al Concilio Vaticano II», spiegherà don Di Piazza «l’abbiamo scritta per comunicare ciò che le persone comunicano a noi, un modo per mantenere vive le sollecitazioni e continuare il dialogo».
Quest'anno il messaggio è incentrato sulla Chiesa «cui siamo profondamente grati», si legge «ed è questa gratitudine che ci sostiene nel considerare le ombre e i tradimenti al Vangelo. Quando la Chiesa riceve potere perde la forza di denunciare l'illegalità, l'ingiustizia, l'immoralità, il razzismo, come avviene nella nostra Regione a livello politico e legislativo».
Parole come pietre, senza enfasi, tuttavia. Quasi la naturale conseguenza di un cammino cristiano che ha come interlocutori privilegiati coloro che meno hanno e meno contano. Così, nell’omelia, la parola corre subito «ai fatti di Firenze e di Torino», l’assassinio degli ambulanti senegalesi e la caccia selvaggia ai rom, lampi di orrore per i quali viene chiesto perdono. Poi l’odissea degli immigrati, i rifugiati in attesa di asilo, i nati in Italia ancora privati («Crudele ingiustizia») dei diritti di cittadinanza. Rimbalzano temi d’attualità, dal ripensamento dell'ora di religione (che dovrebbe diventare «studio del fenomeno religioso») al nodo dei cappellani militari («Perché resta l’incompatibilità tra Vangelo e armi»).
Ma anche la congiuntura sociale e il rapporto Chiesa-politica: «Una Chiesa che tace di fronte alle tragedie del mondo è lontana anni luce da Gesù. La crisi attuale è etica e culturale prima che economica. I cristiani devono impegnarsi per un mondo nuovo, ma non è pensabile un partito di cattolici». La folla dei fedeli annuisce, scambia pensieri, si stringe ai celebranti. Adulti di colore e ragazzine con piumino e piercing, madri di famiglia. E quando una giovane coppia alza sull’altare Ginevra, neonata in fasce, l’applauso scroscia liberatorio.

Il Natale di Benedetto


Qualche scatto della solenne Celebrazione papale nella Solennità della Natività e un assaggio della grandiosa omelia del Santo Padre.





Chi oggi vuole entrare nella chiesa della Natività di Gesù a Betlemme, scopre che il portale, che un tempo era alto cinque metri e mezzo e attraverso il quale gli imperatori e i califfi entravano nell’edificio, è stato in gran parte murato. È rimasta soltanto una bassa apertura di un metro e mezzo. L’intenzione era probabilmente di proteggere meglio la chiesa contro eventuali assalti, ma soprattutto di evitare che si entrasse a cavallo nella casa di Dio. Chi desidera entrare nel luogo della nascita di Gesù, deve chinarsi. Mi sembra che in ciò si manifesti una verità più profonda, dalla quale vogliamo lasciarci toccare in questa Notte santa: se vogliamo trovare il Dio apparso quale bambino, allora dobbiamo scendere dal cavallo della nostra ragione "illuminata". Dobbiamo deporre le nostre false certezze, la nostra superbia intellettuale, che ci impedisce di percepire la vicinanza di Dio. Dobbiamo seguire il cammino interiore di san Francesco – il cammino verso quell’estrema semplicità esteriore ed interiore che rende il cuore capace di vedere. Dobbiamo chinarci, andare spiritualmente, per così dire, a piedi, per poter entrare attraverso il portale della fede ed incontrare il Dio che è diverso dai nostri pregiudizi e dalle nostre opinioni: il Dio che si nasconde nell’umiltà di un bimbo appena nato. Celebriamo così la liturgia di questa Notte santa e rinunciamo a fissarci su ciò che è materiale, misurabile e toccabile. Lasciamoci rendere semplici da quel Dio che si manifesta al cuore diventato semplice. E preghiamo in quest’ora anzitutto anche per tutti coloro che devono vivere il Natale in povertà, nel dolore, nella condizione di migranti, affinché appaia loro un raggio della bontà di Dio; affinché tocchi loro e noi quella bontà che Dio, con la nascita del suo Figlio nella stalla, ha voluto portare nel mondo. Amen.
BENEDICTUS PP. XVI







immagini Corbis.

In Nativitate Domini

 

Lux fulgebit hodie super nos, quia natus est nobis Dominus


"Intorno alla culla di Gesù gli Angeli suoi cantarono pace. E chi credette al messaggio celeste e gli fece onore ebbe gloria e letizia. Così ieri; come sarà sempre nei secoli. 
La storia di Gesù si perenna. Beato chi la intende e ne attinge grazia, robustezza e benedizione."
IOANNES PP. XXIII



Un santo e felice Natale a tutti voi!


Venezia, San Zanipolo, Cappella del Rosario (già all'Umiltà alle Zattere) L'adorazione dei Pastori, Paolo Caliari Il Veronese

Liturgie papali: la benedizione dello stocco e del berrettone


Il principe con la cotta, la spada e il piviale storto. Strani riti (decaduti) alla corte del papa, nella Vigilia di Natale.

46. Vespero Pontificale della Vigilia di Natale a' 24 dicembre. Notizie della cantata e cena che prima si faceva. Benedizione dello stocco, e berrettone, mattutino della notte, e messa.

Benedizione dello stocco, e berrettone
Questa benedizione si deve fare prima del mattutino [della Vigilia], sebbene da alcuni Pontefici sia stata fatta particolarmente nella mattina di Natale, perchè non intervennero alla funzione della notte precedente, nè celebrarono il pontificale della solennità. Clemente XI, nel 1719, l'eseguì dopo la prima messa della notte. Tuttavolta si deve fare la benedizione dello stocco a berrettone prima del mattutino, e se oggidì alcuni Papi eseguirono tal benedizione piuttosto dopo il mattutino, cioè avanti la detta prima messa, ciò fecero perchè assistendo al mattutino, vollero intervenire alla sola messa, che suol cantare il Cardinal camerlengo. Prima di cominciare il mattutino della notte di Natale, il Sommo Pontefice ogni anno ha il costume di benedire uno stocco, o una spada, ed un cappello o berrettone ducale di velluto cremisi, che poi suol donare a qualche sovrano, principe, o capitano benemerito della religione, donativo che trae la sua origine dall'anno 1385, e dal Pontefice Urbano VI; non rinvendosi anteriori notizie su questo argomomento.

Ecco il rito della benedizione:

V. Adjutorium nostum in nomine Domini.
R. Qui fecit coelum et terram.
V. Dominus vobiscum.
R. Et cum spiritu tuo

Oremus.

Benedicere digneris, quaesumus Domine Jesu Christe, hunc ensem in defensionem S. Romanae Ecclesiae, et christianae reipublicae, ordinatum nostrae bene + dictionis officio ad vindicta malefactorum, laudem vero bonorum: ut per eum, qui te inspirante illo accingitur, vim aequitatis exerceas, molemaque iniquitatis potenter evertas, et sanctam Ecclesiam tuam, ejusque fideles, quos, ut pretioso sanguine tuo redimeres hodie in terris descendere et carnem nostram sumere dignatus es, ab omni periculo protegas atque defendas, et famulum tutm, qui hoc gladio in tuo nomine armatus erit, pietatis tuae firma custodia munias, illaesumque custodias. 
Qui vivis et regnas cum Deo Patre in unitate Spiritus Sancti Deus.
Per omnia saecula saeculorum.

R Amen

Deinde Pontifex aspergit glaudium aqua benedicta, incenso adolet.

"mentre un chierico di camera in cotta e rocchetto, avendo preso dalla mensa, e fra due candelieri con candele accese, lo stocco, e il cappello o berrettone, li sostiene in tempo della benedizione"


Questa benedizione si fa dal Papa nella camera de' paramenti, vestito di camice, cingolo, e stola bianca, assistito dai Cardinali diaconi assistenti, e dal Cardinal primo prete per porre l'incenso nel turibolo, mentre un chierico di camera in cotta e rocchetto, avendo preso dalla mensa, e fra due candelieri con candele accese, lo stocco, e il cappello o berrettone, li sostiene in tempo della benedizione; facendo altrettanto il chierico di camera coll'assistenza d'un mazziere, a cornu epistolae dell'altare, tanto nella messa della notte, che in quella del Pontificale, che poi si dirà.
Merita però che qui si osservi che se lo stocco si diede dal Papa a qualche principe, il quale trovavasi presente alla funzione, il medesimo principe si vestiva in cotta, e sovr'essa si cingeva dello stocco benedetto. Si cuopriva di poi col piviale bianco, coll'apertura nel lato corrispondente al braccio destro, e non come l'imperatore, che si eravi presente assumeva il piviale coll'apertura nel davanti, ante pectus, ut episcopi. Tanto il principe quanto l'imperatore si ponevano pure il cappello o il berrettone in capo. Quindi si toglieva il cappello, e lo consegnava ad un familiare, per cantare la quinta lezione del mattutino, che comincia: In quo conflictu. Prima di chiedere la solita benedizione, collo stocco sfoderato, toccava tre volte la terra, e altrettante lo vibrava in aria, e poscia rimessolo nel fodero, diceva cantando: Jube Domine benedicere, e cantava la lezione, terminata la quale si spogliava di de' paramenti descritti [...], partiva dalla Cappella, ed era accompagnato alla sua casa dai famigliari del Papa, e da suoi prelati domestici, dagli oratori o ministri delle corte estere, e da altri nobili, mentre alcuni uffiziali portavano lo stocco col cappello innanzi al principe. Se poi donavasi lo stocco, e berrettone all'imperatore, che si trovasse egualmente presente a questa funzione, in vece della quinta, cantava la settima lezione.

Gli Avvocati Concistoriali, membri laici della Corte Pontificia, in abito da cerimonia. Indossano il piviale con l'apertura rivolta al braccio destro.


da LE CAPPELLE PONTIFICIE cardinalizie e prelatizie di Gaetano Moroni

Splendori patavini: un Avvento di restituzioni



Nella città del Santo due importanti riconsegne per gli amatori dell'arte e per i fedeli: riapre i battenti la Chiesa di Santa Sofia, dopo due anni di interventi di restauro che hanno coinvolto l'edificio tutto. La chiesa, ritenuta la più antica della città fu edificata, secondo la leggenda, sul sito di un tempio pagano probabilmente dedicato al culto del dio Mitra. La conversione a luogo di culto cristiano sembra sia dovuta al Vescovo Prosdocimo in epoca paleocristiana. L'edificio è caratterizzato da due parti distinte, dall'abside con emiciclo risalente al IX-X secolo e le navate, di stile romanico, costruite tra il 1106 e il 1127. Dopo gli ultimi interventi degli anni '50, che eliminarono quel volto barocco che avevano acquisito le navate nel corso dei secoli, i nuovi lavori, all'insegna della modernità hanno portato una ventata di tecnologia all'interno della vecchia chiesa: illuminazione al led, sensori di staticità ed un nuovissimo sistema di riscaldamento a pavimento.







Da domenica 18 dicembre, il Palazzo Vescovile si è arricchito di un altro pezzo della sua storia rinascimentale: la cappella sud, uno dei due oratori gemelli che si aprono sul grande Salone dei Vescovi, dopo lunghi restauri (dal giugno 2010 all’aprile 2011) ha recuperato l'originale decorazione quattro-cinquecentesca commissionata dall'allora vescovo Pietro Barozzi (il suo stemma compare qua e la) che appena un anno fa giaceva celata sotto otto strati di tinteggiature. Per il ripristino della pellicola pittorica si è utilizzata la moderna tecnologia laser oblation. La cappella è stata denominata "del velarium", per la particolare decorazione a tendaggio che la circonda. Resta sconosciuta l'originale destinazione dell'oratorio e delle sue primitive volumetrie: si è accertato che la decorazione pittorica prosegue al disotto dell'attuale calpestabile, come se tra '400 e '500 il pavimento fosse ben più basso dell'attuale.




 
 
immagini da Il Mattino di Padova, G. immage.

Liturgia e Natale in Vaticano: le novità di quest'anno



de L'Osservatore Romano
Tradizioni e novità dei riti del tempo di Natale presieduti quest'anno da Benedetto XVI sono illustrati in una nota da monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.
Innanzitutto, quest'anno sarà collocata accanto all'altare della Confessione della basilica Vaticana una statua lignea della Vergine con il Bambino Gesù, conservata presso i Musei Vaticani, che fu donata dal presidente del Brasile João Goulart a Paolo VI in occasione della sua elezione al soglio pontificio nel 1963. L'opera di scuola brasiliana, risalente al secolo XVIII, rappresenta Nostra Signora di Montserrat ed è dipinta in oro con policromia originale e meccatura in argento. Inoltre, «per quanto riguarda l'ambito musicale -- riferisce monsignor Marini -- la Cappella Sistina eseguirà, come di consueto, brani in gregoriano e in polifonia. Da sottolineare che, per l'ordinario, sarà eseguita la messa cum iubilo, propria del tempo di Natale. All'offertorio saranno eseguiti i mottetti storici composti da Pier Luigi da Palestrina per la Cappella Sistina. La notte di Natale, al posto del salmo responsoriale, come prevedono le norme liturgiche, sarà eseguito l'antico graduale nel 2° modo, caratteristico di questa solennità liturgica. Il tradizionale canto natalizio dell'Adeste fideles sarà eseguito nella forma elaborata da David Willcocks».
In particolare, poi, la messa della notte di Natale sarà preceduta, quest'anno, dalla preghiera dell'ufficio delle letture, così come prevede il messale romano, con inizio alle ore 21. Conclusa la preghiera dell'ufficio, è previsto il canto della kalenda. I testi della preghiera universale sono stati preparati dai monaci certosini di Farneta.

Riguardo alla solennità del 1° gennaio, monsignor Marini sottolinea che in preparazione alla messa sarà recitata la preghiera del Rosario. I testi della preghiera universale sono a cura delle monache della Visitazione del monastero Mater Ecclesiae in Vaticano. Durante la celebrazione dell'Epifania, poi, il Papa ordinerà due nuovi vescovi: monsignor Charles Brown, nominato nunzio apostolico in Irlanda, e monsignor Marek Solczynski, nominato nunzio apostolico in Georgia e Armenia. Infine sedici bambini riceveranno domenica 8 gennaio il battesimo dalle mani di Benedetto XVI nella Cappella Sistina.

Splendori tarvisini: astronomia e architettura a San Nicolò



de La Tribuna di Treviso
Il fenomeno astronomico si è ripetuto anche ieri. Nonostante la giornata incerta; alle 12, i raggi del (pallido) sole hanno illuminato i sei santi che sovrastano le arcate della navata Nord di San Nicolò. Niente di miracoloso, ma pura astronomia, sfruttata nel Medioevo per un messaggio spirituale di rinascita: dal buio, i santi emergevano alla luce, la nuova vita al congedo dell’anno uscente. I committenti del tempo, edificato fra Due e Trecento, vollero che i mastri costruissero il tempi con disposizione precisa di finestre, medaglioni e affreschi. Così la chiesa è stata costruita con un’angolazione di 91 gradi e 4 primi rispetto alla linea del sole, e nel giorno del solstizio i raggi vanno a colpire perfettamente i sei medaglioni disposti sul lato Nord della chiesa. I santi e le sante effigiate sono opera di un artista veneto attivo fra il 1220 e il 1330, ma c’è chi ipotizza possano essere anche, almeno in perte, opera di Tomaso da Modena.

Patriarcato in sedevacante


Oremus pro eligendo Patriarcha 

Deus, qui, pastor ætérnus, gregem tuum assídua custódia gubérnas, eum imménsa tua pietáte concédas Ecclésiæ pastórem, qui tibi sanctitáte pláceat, et vígili nobis sollicitúdine prosit. Per Dóminum nostrum Iesum Christum, Fílium Tuum, et Tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti, Deus, per omnia sæcula sæculorum. Amen.





Lefevriani: ma che sta succedendo?



di Andrea Tornielli (per Vatican Insider)

Era attesa in questi giorni, e la risposta dei lefebvriani al «preambolo dottrinale» proposto dalle autorità vaticane è arrivata nelle ultime ore. Solo che, con una certa sorpresa, la risposta… non risponde. Non si tratta cioè della risposta che la commissione Ecclesia Dei si aspettava (positiva, negativa o con richieste di chiarimenti e modifiche del testo del preambolo su punti precisi). Il testo arrivato dalla Fraternità sarà ora studiato dalla commissione presieduta dal cardinale William Levada e dal segretario Guido Pozzo.
Come si ricorderà lo scorso settembre la commissione Ecclesia Dei avevano consegnato nelle mani di monsignor Fellay un preambolo dottrinale, frutto dei colloqui tra lefebvriani e Santa Sede, chiedendogli di accettarlo in vista del riconoscimento canonico della Fraternità San Pio X: nonostante Benedetto XVI abbia revocato le scomuniche ai quattro vescovi che Lefebvre aveva consacrato senza il mandato pontificio, il gruppo tradizionalista è ancora in una situazione irregolare dal punto di vista canonico. Il preambolo, mai pubblicato, non era un testo «prendere o lasciare». La Santa Sede aveva previsto la possibilità per i lefebvriani di chiedere chiarimenti e di proporre specificazioni ulteriori. Nella sostanza, però, non poteva essere mutato, in quanto il Vaticano chiedeva - in vista della regolarizzazione attraverso la creazione di una prelatura personale dipendente dal Papa – che la Fraternità accettasse la «professione di fede» richiesta a chiunque assuma un incarico ecclesiastico. E chiedeva che riconoscesse come spetti al magistero della Chiesa l’ultima parola in caso di controversie dottrinali.
Fellay, pur non avendo pubblicato il testo (provvisorio) del preambolo, ha però anticipato in almeno due occasioni pubbliche – un’intervista e un’omelia – le difficoltà che i lefebvriani vedono insite nel preambolo. Dicendo apertamente che così com’è quel testo non può essere accettato. In molti, a Roma e fuori Roma, hanno considerato le parole del superiore come indice delle difficoltà interne alla Fraternità: la linea di Fellay è stata infatti oggetto di critiche forti e di aperto dissenso da parte dei superiori di vari distretti, contrari all’accordo con la Santa Sede.
Ora un documento è arrivato, ma non era ciò che in Vaticano ci si aspettava, perché si tratta – spiegano le fonti – di «una documentazione», non di una risposta. Insomma, monsignor Fellay sembra voler prendere ancora tempo, dilazionare la decisione, evitare si pronunciarsi in un senso o nell’altro, o chiedere chiarimenti ed eventuali modifiche al testo proposto dalla Santa Sede.
Si moltiplicano intanto, voci incontrollate sui dissidi interni alla Fraternità. Una newsletter del sito sedevacantista Virgo-Maria.org parla apertamente della possibilità che Fellay venga «deposto» prima del capitolo che nel luglio 2012 dovrà rinnovare gli incarichi interni alla Fraternità.  Ma il sito è noto per aver dato, in altre occasioni, informazioni senza fondamento.
Al di là delle deliranti affermazioni contenute nella newsletter che parla dell’«apostasia» di Roma e del Papa, è innegabile che un forte dissenso interno, contrario all’accordo con Roma, sia cresciuto in questi anni nel gruppo lefebvriano. Ora bisognerà attendere per sapere come la Santa Sede reagirà alla «risposta che non risponde».

Liturgie papali: errata corrige

La Consacrazione Episcopale del 30 ottobre 1963. Papa Paolo VI veste paramenti verdi

Avevamo dedicato un post all'ultima Consacracazione Episcopale di Paolo VI secondo il vecchio cerimoniale papale, datando le immagini al 28 giugno 1964. Pochi giorni fa, sul blog Orbis Catholicus, è però comparsa una vecchia fotografia a colori della stessa celebrazione: incredibilmente, Papa Montini indossa paramenti di color verde, cosa rara (se non unica) nella liturgia papale pre-riforma. Sappiamo infatti che due erano i colori liturgici propri del Pontefice alle cappelle papali e dei solenni riti petrini, il rosso e il bianco. La Consacrazione episcopale col papa in verde si può davvero definire un unicum, e lo prova anche il "disordine" di certe supellettili, come il paliotto o il trono liturgico in bianco, scelta oltremodo bizzarra nel caso di un pontefice parato in rosso. Quindi è chiaro che la Consacrazione Episcopale in questione non è stata certamente Celebrata alla vigilia della Solennità dei Santi Pietro e Paolo del 1964 (il Papa avrebbe di certo pontificato in rosso) ma alla Consacrazione del 30 ottobre 1963. 

I paramenti verdi del Pontefice e dei vescovi assistenti

Non è finita: poche ore fa, sempre su Orbis Catholicus, è comparsa un'altra foto, questa volta in bianco e nero, con una Consacrazione Episcopale celebrata sempre da Paolo VI. Il rito è chiaramente celebrato "in rosso" dal papa, quindi è con molta probabilità la Consacrazione del 28 giugno 1964, l'ultima "in vecchio stile". 
Promettendo di correggere il vecchio post errato, ringraziamo M. I. per la premura. 

La Consacrazione Episcopale del 28 giugno 1964

La disputa del Vaticano II


La provocazione di Papa Benedetto, il Concilio Vaticano II, le luci e le ombre tra continuità e discontinuità.

di p. Serafino M. Lanzetta FI (per Corrispondenza Romana)
Il S. Padre ha indetto, con l’anniversario della solenne apertura del Vaticano II, l’11 ottobre 2012, un Anno della fede, collegandolo idealmente all’ultima assise conciliare. Il discorso ormai famoso di Benedetto XVI alla Curia Romana, del 22 dicembre 2005, segnò, in verità, una vera svolta nell’analisi del Concilio. Avviò una nuova disputa intorno al Concilio; un confronto non più a senso unico col monopolio di una certa ermeneutica, ma un dialogo a più voci, molte delle quali nuove e scevre di risentimenti o rancori di sorta.
L’ermeneutica giusta, al dire di Benedetto XVI in quel discorso, è la «riforma», o «l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità». Una tale riforma comporta continuità e discontinuità secondo livelli diversi: «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma», scrive il Pontefice. Continuità nei principi dottrinali e discontinuità delle forme storico-contingenti, che facevano da supporto a tali principi.
Guardando però più da vicino il Vaticano II e in modo globale, si nota una riforma non solo delle forme storiche e sociali, come poteva essere ad esempio la nuova concezione dello Stato moderno, tale da indurre la Chiesa a ripensare la dottrina della libertà religiosa, rinunciando ad una religione di Stato, ma anche una certa riforma della stessa dottrina: la stessa libertà religiosa, ad esempio, da aspetto soggettivo come incoercibilità della coscienza nella sua apertura alla verità, diventa invocazione oggettiva della medesima plausibilità di tutte le religioni all’interno di uno Stato, in ragione del diritto alla libertà religiosa, che deve diventare libertà di culto (cf. DH 1 in relazione a DH 3 e 4): il livello soggettivo della libertà di coscienza diventa anche e soprattutto oggettiva egualità sociale di tutte le religioni.
Libertà religiosa e libertà di culto sono, in verità, due elementi distinti. Se non le si distingue, argomentandone la reciproca fondatezza nella verità, accade facilmente che la prima venga negata e assorbita dalla seconda. La natura è negata a favore del diritto. Si pensi all’Islam. E la risposta cattolica non può essere semplicemente l’assicurazione di entrambe, ma solo la subordinazione della libertà di culto alla libertà religiosa, radicando quest’ultima nella coscienza morale in quanto aperta alla verità.
Una riforma, perciò, ha interessato anche le dottrine e questo principiando non dalle dottrine ma dal modo di insegnarle, dalle forme storiche contingenti, in primis, dalla forma espositiva e linguistica, ovvero da una nuova metodologia, più pastorale ed ecumenica. Di fatto la dottrina – alcune dottrine – è così “nuova”. L’accavallamento di soggettivo e oggettivo nella libertà religiosa è un paradigma. Ma gli esempi riguardano anche altri ambiti come l’ispirazione dei libri sacri, il rapporto Scrittura e Tradizione, la Collegialità episcopale, il concetto di ecumenismo, che fa leva quasi esclusivamente sul sacramento del Battesimo.
Si è indubitabilmente di fronte ad un insegnamento nuovo, che poi possa essere o meno in pieno collegamento con l’insegnamento precedente è un altro problema, un secondo dato da analizzare. Nel Vaticano II ciò che è da appurare anzitutto è che la continuità e la discontinuità, secondo livelli diversi, si collocano sul piano del soggetto docente e della dottrina insegnata, altrimenti si rischia solo di declamare la continuità delle dottrine ma senza mai verificarla. Si rischia di voler conservare col Vaticano II uno status quo nella Chiesa. Se così non fosse, se la difficoltà ermeneutica cioè non ascendesse fino al rango degli asserti magisteriali, del loro essere semplice sviluppo o piuttosto una nuova forma, una ri-forma della dottrina cattolica, sarebbe già risolta tutta la difficoltà ermeneutica, che invece è il vero rompicapo per valutare correttamente il Vaticano II. Se la difficoltà ermeneutica non riguarda la dottrina di prima e quella di dopo, cade la stessa necessità di un’ermeneutica giusta per appurarne la continuità: questa sarebbe semplicemente evidente.
A nostro giudizio, c’è una nuova forma della dottrina cattolica, che nasce da un binomio tipico del Concilio, non sempre così chiaro – di qui la difficoltà – di dottrinarietà e pastoralità: queste due facce a volte si sovrappongono, a volte si interscambiano. Un solo esempio lampante: in nome del dialogo ecumenico si volle una dottrina sulla Divina Rivelazione che lasciasse insoluto il problema dell’insufficienza materiale delle Scritture; al dire di Florit né lo si affermava né lo si negava, anche se il magistero ordinario nei catechismi aveva appurato definitivamente che non tutte le verità, oltre al canone sacro, sono contenute nella Scrittura.
Il problema ermeneutico del Vaticano II implica 3 aspetti distinti:
1)      nel concilio ci sono delle dottrine nuove;
2)      queste sono uno sviluppo e/o ri-forma delle dottrine classiche;
3)      il grado dell’asserto magisteriale delle dottrine conciliari.
A questo punto come coordinare continuità e discontinuità? La domanda, in modo frettoloso, viene anche formulata così: il Vaticano II è o non è in continuità con il magistero precedente? La domanda però va oltre la mera e scontata asserzione dell’autenticità del 21° concilio della Chiesa rispetto ai 20 precedenti. Se ciò non fosse presupposto sarebbe inutile anche la domanda. La si deve perciò collocare in un substrato teologico molto più sottile, lì dove si nasconde il vero problema: in che modo il magistero del Vaticano II si colloca in continuità con quello precedente? Dove si coglie la continuità?
Fino ad oggi, a cinquant’anni dal Vaticano II, una delle soluzioni che trova più favore, perché forse mai preso di vista in modo scientifico il vero problema, se non grazie al grido d’allarme di Gherardini, è quella secondo cui la continuità è garantita dal magistero stesso: per il fatto che siamo dinanzi ad un’asserzione del Vaticano II, dunque del magistero solenne, abbiamo la continuità. Fondamentalmente questa è la posizione di P. Giovanni Cavalcoli e, di recente, di don Pietro Cantoni. Il magistero diventa così ragione di se stesso.
Ma in questo modo non si dà ragione delle effettive “riforme” del Vaticano II, che si leggono per la libertà religiosa, confrontando la visione ecclesiologica di Pio XII e quella del Vaticano II, per la collegialità del Vaticano II quale “perfezionamento” del primato petrino nel Vaticano I. Come intendere questo perfezionamento? Basta esporre una nuova dottrina o invece è necessario radicarla nella Tradizione della Chiesa?
Il problema “cuore”, dunque, è coordinare continuità e discontinuità secondo livelli differenti, in modo da leggere una nuova dottrina insegnata dal medesimo soggetto. È proprio qui il nodo: la continuità è assicurata dall’unico soggetto che insegna, il magistero, che però non si identifica con la Chiesa e con l’infallibilità totale di essa, rimanendo questa più ampia e includendo ad esempio il sensus fidei del Popolo credente, dunque un’infallibilità in credendo che precede e fonda quella in docendo.
È necessario radicare in modo assoluto, oggi più che mai, l’infallibilità del magistero, nelle Verità credute infallibilmente per mezzo della fede, per evitare di scadere in una visione meramente “burocratica”, in cui il soggetto docente diventerebbe l’ultima ragione del porsi della verità stessa. Ci sarà sempre un Küng che potrà inveire contro il monopolio del “potere romano”, dimenticando che la gerarchia è un’origine sacra, scende dall’alto quale munus, ministero, servizio alla Verità.
La discontinuità invece riguarda fondamentalmente due cose:
1)      la nuova forma che assume il magistero nell’ultimo Concilio: un magistero fontalmente pastorale. Infallibile quando? Sempre, o non piuttosto solo quando reitera il dato di fede definitivo? Un magistero solenne/straordinario quanto alla forma ma ordinario autentico quanto all’effettivo esercizio;
2)      i nuovi contenuti, le nuove dottrine. Negare infatti che ci siano delle dottrine nuove e che siano una ri-forma rispetto a quelle di prima, significa non vedere il Vaticano II. Il magistero può insegnare delle dottrine nuove, ma non per il fatto che le insegna sono (automaticamente) infallibili. Non infallibili poi non significa per sé erronee, ma solo non definitive. La non-infallibilità è un giudizio di valore sul grado magisteriale di cui è rivestita (dal magistero) la dottrina insegnata. L’errore è un giudizio logico che si dà ad una proposizione quanto alla sua conformità o meno al vero. Confondere errore (molto spesso tradotto con fallibilità) con non-infallibilità è un’operazione contraria alla logica e alla teologia.
Il problema c’è, ed è soprattutto di ermeneutica del magistero conciliare in quanto tale, e quindi delle dottrine. Così si presenta, a nostro giudizio, nell’insieme del quadro ermeneutico, un altro aspetto da non trascurare: quale ermeneutica teologica è necessaria per il magistero del Vaticano II? Purtroppo, non abbiamo una categoria per un’ermeneutica dell’aggiornamento magisteriale. Il Concilio volle essere un aggiornamento, ma come capire l’aggiornamento? Basta rispondere: con il magistero?
Alle tesi di Gherardini ha risposto in modo infuocato e con un fare quasi comminatorio di scomunica Don Pietro Cantoni. L’analisi di Cantoni, a nostro giudizio, sorvola il vero problema, e ci lascia amareggiati per il modo in cui tutto il libro viene organizzato: una stroncatura di una persona, mentre avrebbe potuto offrire, mostrando anche le reticenze, un valido contributo alla ricerca ermeneutica sul Vaticano II. Si condanna con la persona non solo una soluzione ma lo stesso problema. Di seguito ci concentreremo sui passaggi salienti di Cantoni in obiezione a Gherardini, onde scorgere i punti più delicati di questo proficuo dibattito.
Tutto l’impianto di Cantoni è fondamentalmente basato su questo concetto: Gherardini scredita il magistero conciliare; invece di mostrarne la continuità con quello precedente, assume un atteggiamento lefebvriano mostrandone la rottura, atteggiamento in antitesi con la Scuola Romana, del resto, sua eredità teologica. Gherardini sarebbe caduto in un sorta di “manualismo”, e il vero argomento per scongiurare ciò è l’accettazione del magistero, visto come soggetto docente più che come dottrina insegnata. Scrive Cantoni:
«Se il concilio ecumenico Vaticano II appare a qualcuno problematico, erroneo, perlomeno confuso, è proprio perché è letto in un’ottica sbagliata. Si tratta di quella “teologia manualistica” che – a contatto con il concilio – non ha retto, ma è andata in frantumi. Non è il concilio che è poco chiaro, è la teologia con cui è interpretato che è tale».
Ma sarà proprio con i grandi manuali dei teologi romani che Cantoni cerca di far vedere le contraddizioni di Gherardini nella sua critica al magistero del Concilio. E sono gli stessi teologi romani, con i loro manuali, ai quali si appella Gherardini quando spiega il concetto di Tradizione: quel quod ubique quod semper quod ab omnibus creditum est, che, quale regola aurea, è principio di ogni sviluppo omogeneo della dottrina cattolica, quanto alla sua accresciuta comprensione, dove Scrittura e Tradizione sono la norma remota della fede, mentre il Magistero è la norma prossima.
Il problema dei manuali che non reggono al confronto col Vaticano II viene corretto da Cantoni col fare appello all’autorità magisteriale, che a suo modo di vedere, «è di carattere carismatico, non “epistemico”, è la sua stessa proposizione che garantisce della sua continuità con la Tradizione, perché è essa stessa componente e componente costitutiva e formale di questa stessa Tradizione, e costituisce quindi per il teologo un fatto a partire dal quale condurre la sua indagine».
Questa affermazione è del tutto nuova. Significa scindere nell’organo magisteriale il soggetto docente dall’oggetto dell’insegnamento, sia materiale che formale. Se la si esaspera si potrà arrivare a trarre dal magistero ogni possibile conclusione. Il magistero stesso non sarà più vincolato da res fidei et morum e potrebbe diventare fautore anche di una nuova Rivelazione. Il che è impossibile. Nel magistero ecclesiastico bisogna considerare unitamente e distintamente: il soggetto attivo che insegna (il Papa e il Collegio dei vescovi), l’oggetto materiale (la verità rivelata) e l’oggetto formale (l’autorità del magistero, che ammette diversi gradi). Dei Verbum al n. 9 precisa i confini del magistero, che non sono dati da se stesso, ma dalla Scrittura e dalla Tradizione:
«Il … magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l’assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio».
Questa visione “carismatica” del magistero favorisce in Cantoni anche il tentativo di dedurre dal Vaticano II, come teologi privati o come fedeli, delle conclusioni irrinunciabili (infallibili), o almeno una dottrina «davanti alla quale non si può assolutamente escludere a priori che qualcosa sia infallibile». Cosa sia infallibile Cantoni non lo dice. Dice però, col sostegno del p. U. Betti, che,
«mentre a Trento e al Vaticano I i capitoli trovavano per lo più (ma non sempre…) nei canoni la conclusione perentoria del loro discorso, qui questa formulazione – che sarebbe infallibile in se stessa nella sua propria formulazione – manca per dichiarata scelta dell’autorità. Nulla però impedisce che una tale conclusione venga tirata dal teologo e dal fedele».
Tralasciamo l’allusione ai fedeli, sovraccaricati di un lavoro veramente immane. Spetta al teologo trarre le conclusione dogmatiche dai documenti del Vaticano II? E così appurarne l’infallibilità, almeno in qualche sua parte? Qui Cantoni scambia ciò che spetta propriamente al magistero, e cioè dichiarare una dottrina come definitiva, con l’opera della teologia, per quanto riguarda invece le “note teologiche”. Cosa può fare il teologo, o meglio, cosa possono fare i teologi? Non fa testo il singolo, ma è necessaria l’unanimità, analogicamente ai Padri.
È bene rivisitare a questo proposito il Commentarius al cap. VII “De Ecclesiae Magisterio”, dello schema preparatorio De Ecclesia, che a sua volta tiene conto del Votum Universitatis Lateranensis de necessitudine inter Magisterium Ecclesiae et sacram theologiam. Qui si distingueva due classi, ovvero due categorie dottrinali teologiche: la «doctrina certa» e le «sententiae theologicae», dove è richiesta, per entrambe, la partecipazione dei teologi e l’antichità e la reiterazione della dottrina: un «communi costanti consensu» e le «venerandae theologicae traditioni». Tutto questo si riscontra tra i teologi per quanto riguarda le dottrine (nuove) del Vaticano II? A tutt’oggi non sembra.
Cantoni giustifica il lavoro del teologo in ragione dell’infallibilità del magistero ordinario e universale, secondo quanto dice il Vaticano I.
Circa il magistero ordinario universale, sembra che Cantoni alluda ad un’universalità solamente de facto, la quale basterebbe a rendere infallibile l’asserto magisteriale del Vaticano II o almeno intoccabile e da accettare indiscutibilmente. Gherardini violenterebbe questa infallibilità/indiscutibilità di dottrine, a cui Cantoni con Scheeben dà la qualifica di “doctrina catholica”.
Qui rileviamo due elementi. La qualifica di “doctrina catholica”, genericamente intesa, ci sembra alquanto sovrabbondante per il Vaticano II. La si attribuisce al Concilio come unicum magisteriale o alle singole dottrine? A tutti i documenti o solo alle Costituzioni dogmatiche? Cantoni tiene veramente conto dell’intenzione dei Padri nel redigere i documenti, in ragione della quale appurare la qualificazione della dottrina di ogni singolo documento? Se al Concilio come unicum risulta deficitaria perché il Vaticano II insegna in alcuni contesti in modo solenne e definitivo, ad esempio quando il Concilio utilizza l’espressione «docet Sacra Synodus» (LG 20), o «docet autem Sancta Synodus» (LG 21), o in altri insegnamenti introdotti dalla parola «credimus» o anche «creditur» (cf. LG 39; UR 3 e 4).
Se invece alle singole nuove dottrine, qui sì che si vede ampiamente la sovrabbondanza: come si può attribuire sic et simpliciter una tale qualifica teologica a delle dottrine, in buona parte, ancora discusse dai teologi (si pensi particolarmente alla collegialità episcopale: il Papa e il Collegio sono due soggetti inadequatae distinctum?), e talvolta richiedenti un ulteriore intervento chiarificatore del Magistero stesso (si pensi alla questione del subsistit in)?; a dottrine cioè insegnate dal magistero ordinario ed universale (impropriamente “ordinario universale” perché qui si tratta di un raduno in un concilio, quindi di un magistero straordinario o solenne), senza che però venga dichiarata la loro definitività? Non è sufficiente, infatti, che ci sia un magistero ordinario ed universale (il collegio dei Vescovi sparso nel mondo che concorda con il suo Capo) perché la dottrina sia doctrina catholica (certa), ovvero definitivamente insegnata dalla Chiesa, muovendo verso il proximae fidei (è in questa direzione che va la qualificazione di Scheeben): è invece indispensabile che sia altresì insegnata tamquam definitive tenendam.
Il testo della Costituzione dogmatica Dei Filius, del Vaticano I, a cui Cantoni si appella, recita così:
«Si devono credere con fede cattolica e divina tutte quelle cose che sono contenute nella Parola di Dio, scritta o trasmessa, e tramite un giudizio solenne, o il suo magistero ordinario universale, vengono proposte alla chiesa come divinamente rivelate e, in quanto tali, da credersi» (cf. DH 3011, a cui faceva già riferimento il b. Pio IX nella Tuas libenter, del 21.12.1863).
Qui è detto che il magistero ordinario universale è infallibile per sé? Certamente non espressamente, ma vien detto che è necessario proporre alla Chiesa le verità come divinamente rivelate. Per rispondere a questa domanda, comunque, è necessario leggere il testo del Vaticano I alla luce di Lumen gentium 25, che recita:
«Quantunque i vescovi, presi a uno a uno, non godano della prerogativa dell’infallibilità, quando tuttavia, anche dispersi per il mondo, ma conservando il vincolo della comunione tra di loro e col successore di Pietro, si accordano per insegnare autenticamente che una dottrina concernente la fede e i costumi si impone in maniera assoluta, allora esprimono infallibilmente la dottrina di Cristo».
Quel «si impone in maniera assoluta», che suona teologicamente molto povero nel nostro italiano, in latino invece esprime la giusta qualificazione teologica della dottrina ordinaria universale ed irreformabile: «[…] in unam sententiam tamquam definitive tenendam conveniunt, doctrinam Christi infallibiliter enuntiant».
Una tale spiegazione era già offerta da uno dei manuali più importanti nell’immediata preparazione al Vaticano II, quello del gesuita J. Salaverri, il quale spiegava la definitività del magistero ordinario universale in questo modo:
«I vescovi insegnano una dottrina da ritenersi come definitiva quando, con il sommo grado della loro autorità, obbligano i fedeli a dare ad essa un assenso irrevocabile».
Crediamo che qui il vero problema dell’analisi di Cantoni consista nell’appoggiarsi a Scheeben che, quantunque autore sicurissimo e validissimo, non ha conosciuto il Vaticano II, concilio con una natura e un fine diversi da Trento e dal Vaticano I, e al p. Betti, sostanzialmente isolato nella sua visione massimalista dei documenti (della Costituzione Lumen gentium) del Vaticano II.
La tesi del “magistero carismatico” non risolve il problema di un magistero a più livelli all’interno dello stesso corpo conciliare, di una nuova forma dell’insegnamento conciliare, di nuove dottrine il cui grado di autorità non è una ricetta fissa, ma va scorto in un lavoro di ricerca della mens conciliare nelle intenzioni dei Padri.
Della complessità del problema se ne era accorto anche l’acuto K. Barth, il quale, tra le varie domande poste a Roma, analizzate egregiamente da Gherardini, chiedeva:
«Il Vaticano II è stato un Concilio di riforma (la cosa è discussa!)? Che cosa significa aggiornamento? Aggiornamento in base ed in vista di che? Si è trattato:
a) del rinnovamento, teoretico pratico, dell’autocoscienza della Chiesa alla luce della Rivelazione che ne costituisce il fondamento? oppure b) del rinnovamento del suo pensiero della sua predicazione, del suo operare oggi alla luce del mondo moderno?».
È ancora difficile rispondere a queste domande. Un Anno della fede però potrebbe essere l’occasione propizia.


Hildegard von Bingen: la Santa di Benedetto diventa Dottore



di Andrea Tornielli (per Vatican Insider)
Ha paragonato le sue visioni a quelle dei profeti dell’Antico Testamento, la cita spesso e le ha dedicato due catechesi all’udienza del mercoledì. L’ha additata come esempio di donna teologa, ne ha lodato i componimenti musicali tutt’oggi eseguiti, come pure il coraggio che le faceva tener testa a Federico Barbarossa al quale comunicava ammonimenti divini.
Benedetto XVI è molto legato alla figura di santa Ildegarda di Bingen e intende proclamarla, nell’ottobre 2012, «dottore della Chiesa»: un titolo raro e solenne, attribuito a santi che grazie alloro vita e ai loro scritti sono stati illuminanti per la dottrina cattolica. La Chiesa ha riconosciuto fino ad oggi 33 «dottori», trenta dei quali uomini. Le donne nell’elenco sono soltanto tre: Teresa d’Avila, Caterina da Siena e Teresina di Lisieux, le prime due proclamate da Paolo VI nel 1970, l’ultima da Giovanni Paolo II nel 1997. Ora Ratzinger vuole aggiungerne una quarta all’elenco, invitando così le donne a seguire l’esempio della mistica renana e a contribuire alla riflessione teologica.
Ildegarda, ultima di dieci fratelli della nobile famiglia dei Vermessheim, nacque nel 1098 a Bermersheim, in Renania, e morì ottantunenne nel 1179. L’etimologia del suo nome significa «colei che è audace in battaglia», una prima profezia che si sarebbe pienamente realizzata. Votata dai suoi genitori alla vita religiosa fin da quando aveva otto anni, si fece benedettina nel monastero di san Disibodo, quindi divenne priora (magistra) della comunità femminile e, visto il numero sempre crescente di aspiranti che bussavano al suo convento, decise di separarsi dal complesso monastico maschile trasferendo la sua comunità a Bingen, dove trascorse il resto della sua vita. Fin da giovane aveva ricevuto visioni mistiche, che faceva mettere per iscritto da una consorella. Temendo che fossero soltanto illusioni, chiese consiglio a san Bernardo di Chiaravalle, che la rassicurò. E nel 1147 ottenne l’approvazione di Papa Eugenio III, che mentre presiedeva un sinodo a Treviri, lesse un testo di Ildegarda. Il Pontefice la autorizzò a scrivere le sue visioni e a parlare in pubblico. La sua fama si diffuse presto: i suoi contemporanei le attribuirono il titolo di «profetessa teutonica» e «Sibilla del Reno». La mistica, santa per il popolo ma mai ufficialmente canonizzata, alla cui figura è dedicato il film «Vision» di Margarethe von Trotta, nella sua opera più nota, Scivias («Conosci le vie»), riassume in trentacinque visioni gli eventi della storia della salvezza, dalla creazione del mondo fino alla fine dei tempi. «Con i tratti caratteristici della sensibilità femminile – ha detto di lei Benedetto XVI – Ildegarda sviluppa il tema del matrimonio mistico tra Dio e l’umanità realizzato nell’incarnazione. Sull’albero della croce si compiono le nozze del Figlio di Dio con la Chiesa, sua sposa, resa capace di donare a Dio nuovi figli». Per Papa Ratzinger, che nel ricordarla un anno fa aveva incoraggiato le teologhe, è evidente proprio da esempi come quello di Ildegarda che la teologia può «ricevere un contributo peculiare dalle donne, perché esse sono capaci di parlare di Dio e dei misteri della fede con la loro peculiare intelligenza e sensibilità». Non mancano nelle sue visioni profezie a breve termine, come quella sull’affermazione dell’eresia catara, ma anche squarci apocalittici, come quella sull’Anticristo che seminerà morte tra le genti «quando sul trono di Pietro siederà un Papa che avrà preso i nomi di due apostoli». O quella in cui fa balenare la possibilità che un musulmano convertito al cristianesimo, divenuto cardinale, uccida il Papa legittimo perché vuole il suo trono e non riuscendo a ottenerlo, si proclami antipapa.
La storia di Ildegarda attesta la vivacità culturale dei monasteri femminili dell’epoca e contribuisce a sfare certi pregiudizi sul Medioevo. Era una monaca, teologa, cosmologa, botanica, musicista: è considerata la prima donna compositrice della storia cristiana. Sapeva governare, condannava le immoralità dei sacerdoti che con i loro peccati facevano «restare aperte le ferite di Cristo», teneva testa agli stessi vescovi tedeschi. Come pure a Federico Barbarossa, al quale fece arrivare un messaggio da parte di Dio, dopo che l’imperatore aveva nominato per la seconda volta un antipapa: «Io posso abbattere la malizia degli uomini che mi offendono. O re, se ti preme vivere, ascoltami o la mia spada ti trafiggerà». La monaca tedesca è anche patrona dei cultori dell’esperanto, in quanto autrice di una delle prime lingue artificiali, la Lingua ignota, un idioma segreto che utilizzava per scopi mistici e si componeva di 23 lettere. È lei stessa descriverla in un codice che contiene anche un glossario di 1011 parole in «lingua ignota».
La Congregazione per le cause dei santi, guidata dal cardinale Angelo Amato, sta concludendo lo studio dei documenti su Ildegarda. Anche se i Papi avevano permesso il suo culto in Germania – l’ultimo a esprimersi in questo senso era stato Pio XII – la mistica renana non è mai stata veramente canonizzata, perché il processo apertosi mezzo secolo dopo la sua morte venne interrotto. Si prevede perciò che Papa Ratzinger, che l’ha già più volte definita «santa» nei suoi discorsi, la canonizzi ufficialmente prima di iscriverla nell’esclusivo albo dei dottori la cui vita e le cui opere sono state illuminanti per la dottrina cattolica.

La Diocesi di Treviso online


E' disponibile sul web ormai da quindici giorni, il nuovo sito della Diocesi di Treviso. Inaugurato il primo dicembre direttamente dal mouse del Arcivescovo-Vescovo Gardin, è ricco di notizie e documenti, nuove sezioni, l'elenco delle parrocchie e un nuovo spazio riservato all'arte (in fase di allestimento). E' presente anche un motore di ricerca completamente dedicato alle Celebrazioni Liturgiche in territorio diocesano, con informazioni ed orari ed un servizio newsletter. Il referente per il sito è don Pierluigi Guidolin.

La Chiesa santa, segnata dal peccato


[...] in ogni epoca la Chiesa viene sostenuta dalla luce e dalla forza di Dio, che la nutre nel deserto con il pane della sua Parola e della santa Eucaristia. E così in ogni tribolazione, attraverso tutte le prove che incontra nel corso dei tempi e nelle diverse parti del mondo, la Chiesa soffre persecuzione, ma risulta vincitrice. E proprio in questo modo la Comunità cristiana è la presenza, la garanzia dell’amore di Dio contro tutte le ideologie dell’odio e dell’egoismo.

L’unica insidia di cui la Chiesa può e deve aver timore è il peccato dei suoi membri. Mentre infatti Maria è Immacolata, libera da ogni macchia di peccato, la Chiesa è santa, ma al tempo stesso segnata dai nostri peccati. Per questo il Popolo di Dio, peregrinante nel tempo, si rivolge alla sua Madre celeste e domanda il suo aiuto; lo domanda perché Ella accompagni il cammino di fede, perché incoraggi l’impegno di vita cristiana e perché dia sostengo alla nostra speranza.


BENEDICTUS PP. XVI
Atto di venerazione all'Immacolata in Piazza di Spagna 2011, omelia.

In Conceptione Immaculata Beatæ Mariæ Virginis



Benedícta es tu. Virgo María, a Dómino,
Deo excélso, præ ómnibus
muliéribus super terram. 

Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël,
tu honorificéntia pópuli nostri.


Proprium de Sanctis, Die 8 Decembris, In Conceptione Immaculata B. M. V., 
Graduale (Judith. 13, 23 et 15, 10)

Venezia, Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, L'Immacolata Concezione di Giuseppe Angeli.
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