Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

L'agostiniana del Venerdì Santo

 
Si chiama Maria Rita Piccione, è una suora agostiniana a capo del monastero dei Santi Quattro Coronati vicino al Colosseo. E’ lei la prima donna alla quale, sotto il cielo del pontificato di Benedetto XVI, è stato affidato un incarico delicato: scrivere i testi delle meditazioni della Via Crucis che il Papa presiederà il prossimo Venerdì Santo al Colosseo. Quelle stesse meditazioni che nel 2005 proiettarono il card. Joseph Ratzinger al papato: "Quanta sporcizia c’è nella Chiesa", scrisse. Parole che poi il Collegio cardinalizio interpretò come un programma di governo che era assolutamente necessario mettere in campo. Prima di Maria Rita Piccione, altre donne. Perché le cosidette quote rosa in Vaticano non sono a esclusivo appannaggio del Papa tedesco come da più parti c’è chi ripete. Fu Giovanni Paolo II nel 1993 a incaricare del medesimo incarico Anna Maria Canopi, abbadessa dell’abbazia benedettina Mater Ecclesiae e nel 1995 Minke de Vries, monaca della comunità protestante di Grandchamp (Svizzera). Anna Maria Canopi fu la prima donna in assoluto a scrivere le meditazioni per il Papa. Minke de Vries, invece, fu la prima esponente non cattolica a cimentarsi. Era il 1998 quando Papa Wojtyla chiese a un esponente ortodosso, il teologo Olivier Clement, che dedicò la sua Via Crucis a “tutte le donne del mondo”, specialmente quelle vittime di violenze, sopraffazioni e sfruttamento. Clement ricordò il “coraggio” mostrato da quel piccolo gruppo di pie donne che duemila anni fa restò vicino alla Madonna e a Giovanni sul Golgota, ai piedi della croce di Cristo. Era il 2000, l’anno del Giubileo. Wojtyla affidò i testi per la Via Crucis a un gruppo di 14 giornalisti internazionali, tra cui c’erano alcune donne, che si occuparono ognuna di una singola meditazione: la vaticanista del Tg5 Marina Ricci, la vaticanista messicana Valentina Alazraki, quella francese Sophie De Ravinel, la tedesca Marie Czernin e la portoghese Aura Miguel Vistas. Quest’anno un’ulteriore novità: la scelta iconografica del libretto su cui saranno pubblicate le meditazioni sono state disegnate per la prima volta da una suora, Elena Manganelli, anch’essa monaca agostiniana. Non sempre i testi della Via Crucis papale sono stati composti da figure non ecclesiastiche. Nel 1999, Giovanni Paolo II incaricò il poeta Mario Luzi. Nelle ultime edizioni, sono saliti alla ribalta della Passione al Colosseo alcuni tra i più importanti cardinali, Angelo Comastri, arciprete della Basilica di San Pietro, e Camillo Ruini, per circa 17 anni presidente della CEI. Ma i testi più esplosivi restano quelli dell’attuale Papa. Disse: “Che cosa può dirci la terza caduta di Gesù sotto il peso della croce? Forse ci fa pensare alla caduta dell’uomo in generale, all’allontanamento di molti da Cristo, alla deriva verso un secolarismo senza Dio. Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa chiesa? A quante volte si abusa del santo sacramento della sua presenza, in quale vuoto e cattiveria del cuore spesso egli entra! Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! Quanto poco rispettiamo il sacramento della riconciliazione, nel quale egli ci aspetta, per rialzarci dalle nostre cadute! Tutto ciò è presente nella sua passione. Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison – Signore, salvaci"

di Paolo Rodari (Il Foglio) da La Vigna del Signore.
Immagine Corbis

Liturgie Papali: la Consacrazione Episcopale del 30 ottobre 1963

 

Rare immagini di una Consacrazione Episcopale "vecchio stile", prima della riforma del Cerimoniale Papale. E' la domenica del 20 ottobre del 1963. Il Papa Paolo VI, guidato dall'instancabile Mons. Enrico Dante, Prefetto delle Cerimonie si appresta a Consacrare quattordici nuovi vescovi. Sul Sito della Santa Sede è presente l'omelia in latino pronunziata dal Pontefice durante il Rito.










Altre informazioni in questo post.

Ad Aquileia, per rinnovare l'annuncio di Cristo


Di nuovo ad Aquileia, culla del cristianesimo triveneto, a distanza di ventidue anni dal primo convegno ecclesiale nella storia delle quindici diocesi del Nord­Est. Per preparare l’importante avvenimento, in programma dal 13 al 15 aprile 2012, è stato istituito un apposito Comitato, il cui vicepresidente (insieme con il vescovo di Padova, monsignor Antonio Mattiazzo) è monsignor Lucio Soravito, vescovo di Adria-Rovigo.

Msa. Alzare le vele verso un convegno di tale portata rappresenta un bell’impegno. Dove si vuole arrivare?
Soravito. Si vogliono stimolare le nostre Chiese a svolgere la loro missione fondamentale: annunciare Gesù Cristo crocifisso e risorto all’uomo di oggi, che si trova a dover affrontare sfide inedite e sconvolgenti. Il terzo millennio si è aperto con grandi attese e con scenari nuovi, che hanno cambiato non solo il sistema di comunicare e le dinamiche relazionali, ma anche l’uomo stesso. La crisi economica, poi, ha portato pesanti conseguenze sul piano personale, familiare e sociale.
Nel NordEst si è fatto sempre più rilevante il fenomeno dell’immigrazione, non semplice da gestire. Accanto a esso si fa sempre più impegnativa la cosiddetta «questione delle nuove generazioni», che sollecita le comunità cristiane a impostare in maniera nuova il rapporto con i giovani. In questa situazione problematica, le nostre Chiese si chiedono: come aiutare l’uomo d’oggi a ritrovare il senso di Dio, in questa società che sembra averlo perduto?

Si parla di Aquileia 2 perché nel 1990 si è celebrato un primo importante evento, quello che adesso possiamo chiamare Aquileia 1. Qual è il suo ricordo in proposito e quale il collegamento ideale tra i due convegni?
Aquileia 1 ha creato un dialogo ricco e stimolante tra le nostre Chiese che, pur appartenenti a tre regioni contermini, sono molto variegate nel loro assetto sociale e culturale. Quel primo Convegno ecclesiale ha fatto sentire la bellezza della collaborazione tra Chiese sorelle, per un rinnovato impegno di evangelizzazione e per una maggiore apertura missionaria. Quell’evento inoltre ha permesso di creare tre settori di collaborazione, ritenuti particolarmente urgenti: il potenziamento della formazione teologica, con l’istituzione della Facoltà di Teologia; l’attenzione pastorale al turismo e all’immigrazione; l’assunzione di un nuovo impegno nel campo dei mass media, con la creazione di Telechiara e la promozione degli altri strumenti di comunicazione sociale.

Nella traccia preparatoria, per motivare Aquileia 2 si usano tre parole belle ma impegnative: testimonianza, discernimento comunitario, profezia. Ce le spiega?
Innanziatutto le Chiese del Triveneto si propongono di testimoniare, attraverso la narrazione, il loro vissuto nel ventennio trascorso, riconoscendovi la presenza e l’azione dello Spirito; il Convegno vuole aiutarci a condividere le esperienze ecclesiali e pastorali in atto per un arricchimento reciproco. Con il discernimento comunitario, invece, si punta a individuare insieme ciò che lo Spirito dice alle Chiese attraverso le sfide, le difficoltà, le domande, i cambiamenti socio-culturali, i nuovi atteggiamenti religiosi e le espressioni di appartenenza ecclesiale delle nostre diocesi oggi. Infine, c’è la profezia: si tratta di progettare le modalità e le iniziative pastorali da attivare e le collaborazioni da stabilire tra noi, per rinnovare l’annuncio di Cristo, la comunicazione del Vangelo, l’educazione della fede, e per affrontare insieme le sfide che vanno oltre i confini delle singole diocesi.

Due anni, nell’era di internet, sono un’epoca storica. Quali tappe scandiscono il cammino verso Aquileia 2?
Nell’anno pastorale in corso le singole diocesi sono chiamate a discernere l’azione dello Spirito in ciò che è avvenuto nel loro vissuto ecclesiale e nella conseguente azione pastorale, e a «raccontare» questa azione dello Spirito. Inoltre sono chiamate a riconoscere le proprie risorse e a rilevare le difficoltà, i limiti, le domande, le aspettative, le priorità e le scelte.
Nell’anno pastorale 2011-2012, poi, le diocesi individueranno le scelte pastorali necessarie per rispondere alle sfide rilevate in questo primo anno di preparazione, le esigenze emergenti, il nuovo a cui aprirsi, i fronti pastorali su cui avanzare insieme. Il Comitato triveneto individuerà i «problemi pastorali» su cui concentrare la riflessione ad Aquileia e progetterà eventuali laboratori regionali di riflessione che si terranno prima del Convegno, che si svolgerà ad Aquileia (Udine) e Grado (Gorizia) nella prima settimana di Pasqua, dal 13 al 15 aprile 2012.

Sarà il Papa, il prossimo 7 maggio, a inaugurare, durante la sua visita ad Aquileia e Venezia, il secondo anno di preparazione al Convegno...
Siamo grati a Benedetto XVI per aver accolto l’invito del patriarca di Venezia e dei vescovi del Triveneto a compiere una visita pastorale nelle nostre terre. La visita del Papa alla Chiesa madre del NordEst è un forte segnale di attenzione del Pontefice e rappresenta uno stimolo particolare nel nostro cammino di preparazione. Il Papa di certo ci inviterà non solo a ravvivare la nostra fede ma, come ha dimostrato nella recente visita in Gran Bretagna e in Sicilia, ci chiamerà a un confronto e a un dialogo sincero e leale con tutti – credenti e non credenti – e ad arricchire la nostra società civile con le pratiche di «vita buona» proposte dalla fede cristiana.
Alcuni cristiani, anche preti, dimostrano una certa diffidenza nei confronti di eventi come questo, che rischiano di lasciare solo tracce di carta. Qual è l’antidoto che userete contro tale obiezione?
Aquileia 2 non produrrà «carta stampata», ma inviterà i cristiani a leggere il vissuto personale ed ecclesiale e a narrare ciò che lo Spirito sta facendo nella nostra vita e nella società. Ci inviterà a fare quello che hanno fatto i primi cristiani. Quando Pao­lo e Barnaba ritornarono ad Antiochia dopo la missione nell’Asia minore, «riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede» (At 14,27). Subito dopo, nel loro viaggio verso Gerusalemme, «attraversarono la Fenicia e la Samaria, raccontando la conversione dei pagani e suscitando grande gioia in tutti i fratelli» (At 15,3). Poi arrivarono a Gerusalemme, dove «furono ricevuti dalla Chiesa, dagli Apostoli e dagli anziani, e riferirono quali grandi cose Dio aveva compiuto per mezzo loro» (At 15,4). Il momento della narrazione di quanto avviene nella vita della Chiesa è fondamentale per realizzare quella comunione che sfocia in una rinnovata missione. Questo «metodo narrativo» favorisce un modo tipicamente ecclesiale di incontrarsi. Ci invita a riconoscere ciò che il Signore ha realizzato con noi e per noi nella vicenda di ogni singola Chiesa e a farne dono vicendevole. La testimonianza di fede non è semplicemente un dare informazioni, ma è narrare ciò che il Signore ha fatto e sta facendo nella nostra vita e nelle nostre comunità.

Essere cristiani a NordEst oggi è più difficile?
Certo: l’attuale contesto culturale secolarizzato – che tende a rimuovere il senso della presenza di Dio – mette in crisi la nostra vita cristiana e ci obbliga a motivare la nostra fede e a renderla adulta. Oggi non si può essere cristiani per tradizione, ma solo per convinzione personale. Stiamo passando sempre più da un «cristianesimo di tradizione» a un «cristianesimo di elezione», da un contesto cristiano diffuso a un contesto secolarizzato, in cui la fede appare come una tra le varie opzioni e, molte volte, quella più ardua. In questa situazione noi cristiani siamo chiamati a rinvigorire la nostra fede e la nostra speranza, e a trovare nello Spirito la forza della perseveranza e della testimonianza, similmente a quanto è detto nelle lettere indirizzate alle sette Chiese in Apocalisse 2-3.

Infatti, per esprimere con parole di fede la preparazione ad Aquileia 2, nella Traccia di lavoro per le Diocesi avete utilizzato un versetto che ricorre più volte nel libro dell’Apocalisse: «In ascolto di ciò che lo Spirito dice alle Chiese». Si tratta di un versetto sintesi?
Sì, è una frase che riassume quello che deve essere l’atteggiamento fondamentale delle Chiese e dei cristiani: l’attenzione alla presenza e all’azione dello Spirito e la totale docilità alle sue chiamate. È questo l’atteggiamento che deve caratterizzare il cristiano, come ha segnato la vita di Maria, Madre di Gesù: «Maria conservava nel suo cuore tutte le cose che accadevano e le meditava» (Lc 2,19.51). Le motivazioni per cui i vescovi del Triveneto hanno scelto di celebrare questo secondo Convegno ecclesiale fanno riferimento ad Apocalisse 2-3, dove si narra la visione che chiede a Giovanni di mettere per iscritto «ciò che lo Spirito dice alle Chiese». A ciascuna delle sette Chiese è detto: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese» (Ap 2,7a.11a.17a.29; 3,6.13.22). È questo l’invito che anima la nostra preparazione. Un invito che vuole attivare lo stile ecclesiale della sinodalità e il metodo pastorale del discernimento comunitario, per rinnovare l’annuncio di Cristo agli uomini del nostro tempo.

di P. Ugo Sartorio, da il Messaggero di Sant'Antonio

Appuntamento col Primicerio


Quando il Doge aveva prerogative vescovili e il Primicerio di San Marco, suo Cappellano, ne era rappresentante. Da Demetrio Tribuno (819) alla soppressione del titolo con Luigi Paolo Foscari, nel 1807. Un appuntamento per riscoprire una delle figure più interessanti e radicate nella storia della Serenissima.

mercoledì 30 marzo 2011 alle ore 18.00
presso la sala Sant’Apollonia, Castello 4309
verrà presentato il volume

Il Primiceriato marciano
al tramonto della Repubblica di Venezia

La visita pastorale di Paolo Foscari (1790-1796). I . Basilica ducale
di Manlio Miele

Sopravvissuto di pochi anni alla fatidica caduta della Repubblica di Venezia nel 1797, il Primiceriato di San Marco, ossia quella singolare prelatura addetta all’officiatura della cappella ducale, restò in vita fino al 1807 quando la basilica divenne sede del Patriarcato di Venezia.Una dettagliata analisi dal punto di vista del diritto canonico di questa particolare istituzione ecclesiastica – un “quasi vescovo” facente capo direttamente al doge–, della sua giurisdizione e delle sue dipendenze fra cui alcune parrocchie della città e la Pietà, viene oggi riproposta dal volume di Manlio Miele, contenente pure l’edizione integrale dell’ultima visita pastorale del Settecento riguardante San Marco.
relatori
Giorgio Feliciani, Università Cattolica di Milano, Studium Generale Marcianum
Irene Favaretto, Procuratore di San Marco
Francesca Cavazzana Romanelli, Archivio Storico del Patriarcato di Venezia
coordina l’incontro
Don Diego Sartorelli, Direttore dell’Archivio Storico del Patriarcato
sarà presente l’autore.

Dalle 17.00 sarà possibile visitare nell’adiacente sede dell’Archivio patriarcale
un’esposizione di documenti riguardanti la basilica di San Marco tratti dall’archivio del Primicerio e da altri fondi

Ne timeas, Maria


In mense autem sexto missus est angelus Gabriel a Deo in civitatem Galilaeae, cui nomen Nazareth, ad virginem desponsatam viro, cui nomen erat Ioseph de domo David, et nomen virginis Maria. Et ingressus ad eam dixit: “Ave, gratia plena, Dominus tecum.” Ipsa autem turbata est in sermone eius et cogitabat qualis esset ista salutatio. Et ait angelus ei: “Ne timeas, Maria; invenisti enim gratiam apud Deum. Et ecce concipies in utero et paries filium et vocabis nomen eius Iesum. Hic erit magnus et Filius Altissimi vocabitur, et dabit illi Dominus Deus sedem David patris eius, et regnabit super domum Iacob in aeternum, et regni eius non erit finis.” Dixit autem Maria ad angelum: “Quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco?” Et respondens angelus dixit ei: “Spiritus Sanctus superveniet in te, et virtus Altissimi obumbrabit tibi: ideoque et quod nascetur sanctum, vocabitur Filius Dei. Et ecce Elisabeth cognata tua et ipsa concepit filium in senecta sua, et hic mensis est sextus illi, quae vocatur sterilis, quia non erit impossibile apud Deum omne verbum.” Dixit autem Maria: “Ecce ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum.” Et discessit ab illa angelus. Lucas 1:26–38

Patene, veli omerali e suddiaconi


Nella forma extra-ordinaria del rito romano, uno degli usi meno comprensibili - almeno a prima vista - è quello del suddiacono che regge la patena vuota.
Nella Messa solenne, dove il celebrante è assistito da diacono e suddiacono, quest'ultimo, all'Offertorio (dopo la preghiera dell'Offerimus tibi, Domine), riceve dal diacono la patena vuota; il suddiacono stesso, ricoperto col velo omerale, la regge vuota sino alla fine del Pater noster, quando la riconsegna al diacono. Lo stesso accade nella Messa pontificale.
Quest'uso deriva da un'antica pratica della Messa papale (almeno sino al VII secolo), ancora non del tutto chiara.
Le linee proposte possono essere due:
1) un passo dell'Ordo Romanus Primus (VII sec.) (cfr. PL 78, 945), alquanto oscuro, ha fatto propendere alcuni a sostenere l'idea per cui il Papa, svolgendo il rito della commixtio (cioè del mettere un pezzettino di ostia consacrata nel calice del vino consacrato), avrebbe inserito nel calice non un frammento del pane appena consacrato, bensì un frammento del Santissimo Sacramento rimasto da precedenti celebrazioni, a significare la perpetuità del Sacrificio. Sarebbe forse da ricollegarsi al rito, descritto dal medesimo Ordo (cfr. PL 78, 941), che avveniva durante il canto dell'Introito. Mentre la Schola cantava, infatti, il Pontefice procedeva processionalmente verso l'altare; prima di giungere a quest'ultimo, però, due accoliti gli presentavano una custodia "cum Sanctis", cioè con un frammento dell'Eucarestia, evidentemente consacrata in precedenti celebrazioni.
L'uso di tenere una patena avrebbe dunque avuto un senso: su di essa sarebbe stato presente il frammento di ostia consacrata che il Papa avrebbe successivamente immesso nel calice, prima della Comunione.
2) Un'altra possibilità è da ricollegarsi all'uso del fermentum. Almeno dal II sec., è infatti stato uso invalso nella cristianità che il vescovo, dopo aver consacrato pane e vino, inviasse un frammento dell'Eucarestia ad un altro vescovo oppure a sacerdoti della sua stessa diocesi: era questo un modo per rendere visibile la comunione esistente tra i successori degli Apostoli, oppure tra un vescovo e i suoi sacerdoti. Nel caso del Papa, questo frammento veniva inviato ai vescovi suburbicari e ai presbiteri titolari delle chiese di Roma (quest'uso è descritto da papa sant'Innocenzo I [+ 417]).


Se in Oriente la pratica del fermentum andò sparendo già verso il IV secolo, in Occidente pare invece essere rimasta in uso sin quasi al termine del I millenio.
In questo caso, il reggere la patena vuota avrebbe significato l'attesa di ricevere un frammento dell'Eucarestia appena svolta, il quale poi sarebbe stato inviato ai soggetti sopra descritti. Chi riceveva il fermentum, poi, l'avrebbe utilizzato per il rito della commixtio.
L'uso del velo omerale, invece, pare piuttosto evidente: si trattava di non toccare direttamente con le mani oggetti sacri. Si tratta comunque di un uso che ha conosciuto diverse codificazioni e varianti (talvolta non si usava alcun panno, talvolta non si usava il velo omerale in sé), venendo alla fine definito, così come lo conosciamo, verso la fine del Medioevo.

immagini da RS, g.immage.

Il tempo della prova, tra male e peccato


All’inizio della Quaresima, la colletta del mercoledì delle Ceneri, proveniente dall’antica raccolta del Veronese (n.207), presenta il tempo quaresimale come un cammino di conversione in cui i cristiani sono chiamati ad affrontare “con le armi della penitenza il combattimento contro lo spirito del male”. Il prototipo di questo combattimento è lo stesso Cristo che resiste alle insidie del tentatore nel deserto, episodio che ogni anno viene letto nel vangelo della domenica I. Nell’Ufficio delle letture di questo stesso giorno, commenta sant’Agostino: “Leggevamo ora nel vangelo che il Signore Gesù era tentato dal diavolo nel deserto. Precisamente Cristo fu tentato dal diavolo, ma in Cristo eri tentato anche tu…” Dal mercoledì delle Ceneri fino al sabato anteriore alla domenica delle Palme, il tema del combattimento spirituale viene ricordato discretamente ogni giorno nell’antifona dell’ora Nona, che recita così: “Siamo saldi nella prova: nostra forza è la giustizia di Dio”. La giustizia di cui parla questo testo ha senza dubbio risonanze bibliche: Dio è giusto significa che è degno di affidamento (cfr. Is 26,4), si attiene al patto e, quindi, elargisce la grazia per combattere i nemici della salvezza (cfr. Is 10,22). Questa giustizia promessa per i tempi messianici si è manifestata in Gesù Cristo (cfr. Rm 3,21).
 
La grazia del battesimo non libera la nostra natura dalla sua debolezza, né dall’inclinazione al peccato che la tradizione chiama “concupiscenza”, la quale rimane in noi anche dopo il battesimo perché sosteniamo le prove quotidiane nel combattimento della vita cristiana, aiutati dalla grazia di Cristo: “La drammatica condizione del mondo che ‘giace’ tutto ‘sotto il potere del maligno’ (1Gv 5,19), fa della vita dell’uomo una lotta” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n.409). Nelle invocazioni delle Lodi mattutine del mercoledì delle Ceneri l’itinerario quaresimale viene presentato come un tempo per “recuperare pienamente il senso penitenziale e battesimale della vita cristiana”. Questo itinerario è fatto d’un “morire” e d’un “risorgere”. A questo proposito, san Leone afferma: “attraverso la fatica si passa al riposo e attraverso la morte si giunge alla vita” (Ufficio delle letture della domenica II). Si tratta di un “cammino di conversione”. “Convertirsi” è una scelta che comporta un cambiamento radicale del modo di pensare e di vivere, si tratta cioè di acquisire un modo di pensare e di vivere secondo il vangelo, come ci ricordano le parole con cui viene imposta su ciascuno di noi la cenere all’inizio della Quaresima: “Convertitevi, e credete al vangelo” (Mc 1,15). In questo itinerario di lotta e di conversione, la tradizione ecclesiale ci offre come “medicina dell’anima” l’esercizio delle pratiche penitenziali (cfr. colletta del lunedì II, proveniente dai testi quaresimali del Gelasiano, n.173).  
 
La comunità cristiana nel suo cammino quaresimale è chiamata a prendere coscienza della realtà e delle esigenze del proprio battesimo, a compiere opere di misericordia e di servizio, ed a celebrare ogni giorno il suo essere in Cristo nell’eucaristia dove l’esperienza filiale del battesimo (cfr. Rm 8,14-17; Gal 4,4-5) raggiunge la sua piena manifestazione.
 
M. A.

dal blog di Matias Augé, titolo orig. La Quaresima tempo di lotta contro il male e il peccato

immagine da Corbis

L'intervista a Vianini: 2420 video "gregoriani" su Youtube


È bene precisarlo subito: questa intervista in forma scritta non rende onore alle doti canore di Giovanni Vianini, 71 anni, milanese di origini cremonese, storico direttore e fondatore del coro Schola Gregoriana Mediolanensis che quest’anno festeggia i 30 anni di attività. Per uno come lui cresciuto a pane e gregoriano, cantore nella Cappella Musicale del Duomo di Milano già a 8 anni, è difficile rispondere anche a telefono senza sciorinare quei vocalizzi austeri e sublimi. E da vero innamorato del canto tradizionale della Chiesa, non può non accogliere con melodioso gaudio la notizia che dal 12 marzo il gregoriano sbarca stabilmente in televisione grazie a “La domenica con Benedetto XVI”, in onda su Tv 2000 ogni sabato alle 17.30. Mezz’ora di trasmissione in cui i “Cantori Gregoriani” diretti dal maestro Fulvio Rampi eseguiranno i canti della liturgia domenicale: accompagneranno il meglio della predicazione del Papa (omelie, Angelus, discorsi) illustrata anche dallo storico dell’arte Timothy Verdon. «È davvero una grande iniziativa – afferma Vianini – . Qualche anno fa Del Noce aveva proposto di portare il gregoriano nei palinsesti Rai, ma poi non ne fece più nulla. Fulvio Rampi di Cremona è bravissimo, è stato il mio maestro. Lui ha un metodo più “filologico”, io sono un po’ più popolare».

La sua fama, maestro, è legata alla Schola Gregoriana Mediolanensis che ha fondato nel lontano 1981…

Sì, avvertivo l’esigenza di dare una svolta a certe liturgie: al posto della musica sacra girano ancora oggi insulse “canzonette”. Così nella parrocchia di San Marco a Milano ho cominciato a proporre un corso di gregoriano, il canto principe della tradizione liturgica. In 30 anni hanno aderito oltre 1500 persone. La capienza massima per ogni lezione è di 40 persone, ma spesso ne sono arrivate anche 100 a serata. Il corso è del tutto gratuito e libero, nel senso che puoi seguire le lezioni che vuoi per cui ogni volta ci sono persone diverse.

Ma non occorre una certa continuità?
Basta un breve apprendimento, poi ovviamente dipende dalle capacità delle persone. Quando faccio le prove, montiamo i pezzi come un puzzle: io ti canto un pezzettino e tu lo ricanti. Fino a quando tu non l’hai acquisito non vado avanti. Nel giro di una serata di due ore di prove torni a casa con due pezzi nuovi.

Chi sono i partecipanti?
Abbiamo tanti giovani, in un gruppo in cui l'età media è 40-50 anni. Molti sono incuriositi dalla qualità del canto. Oltre ovviamente a quelli che vengono per fede perché hanno inteso il gregoriano per quel che è: una preghiera cantata. E difatti facciamo un servizio liturgico: cantiamo la messa due volte al mese nella chiesa di San Marco a Milano (ogni terza domenica del mese alle 18.30) e all’abbazia di Chiaravalle milanese (ogni seconda domenica del mese alle 18), insieme con i monaci. Mettiamo anche noi la “cocolla” per rispetto alla liturgia: l’abito fa il monaco in questo caso… Coloro che frequentano il corso (ogni mercoledì dalle 21 alle 23 nella chiesa di San Marco) fanno le professioni più svariate, dal medico all’artigiano. L’unico requisito è quello di essere intonati…

Le pare poco?

Ma non è affatto un problema. Non esistono persone stonate per natura, ma solo persone non abituate a cantare. Purtroppo in Italia le scuole non educano al canto. A chi è “stonato” chiedo di restare inizialmente ad ascoltare. Poi piano piano entrerà nel gruppo. È come se dovesse entrare in un fiume in piena: siamo in 40-50 a cantare la stessa melodia, all’inizio ascolta poi si ritroverà dentro con gli altri. Certo con qualcuno ci vuole più pazienza...Ma non faccio prove singolarmente: evito di mettere in imbarazzo la gente…

Il fatto che si canti in latino non è una difficoltà?
No, anzi è un piacere. È la nostra lingua madre. Poi lavoriamo sempre con il testo italiano a fronte, quindi si capisce che cosa stiamo cantando. Il gregoriano ha una sua metrica che è inscindibile dal latino. Accamparlo come difficoltà è solo un alibi…

Lei vorrebbe il gregoriano in tutte le liturgie?

Ci sono tante apprezzabili composizioni sacre moderne che rispettano la liturgia. Però mi è capitato più volte di entrare nelle chiese di Milano e assistere a messe accompagnate da sassofono, batteria, chitarra elettrica… La gente si guardava tra sé, voleva partecipare e non riusciva. Io dico soltanto che il gregoriano favorisce il raccoglimento.

Però anche i Salmi incitano a lodare il Signore con cembali, timpani…
Questa è una domanda cattiva… Io non ho nulla contro la chitarra che trovo sia uno strumento bellissimo. Ma c’è un motivo se la Chiesa preferisce il suono dell’organo: è lo strumento più adatto a sostenere il canto liturgico. È vero poi che in altri Paesi prevalgono tradizioni diverse. Però il gregoriano può addirittura far a meno anche dell’organo quando si è in pochi. Se vuoi far cantare l’assemblea cosa c’è di meglio di Kyriii e e ee… (e intona il celebre Kyrie della Missa De Angelis, ndr). Alla fine puoi ben dire “ho pregato”.

È indubbio che la tradizione del gregoriano si è persa nelle nostre parrocchie. Come è stato possibile?

Si è ecceduto con le “libertà” liturgiche promosse dal Concilio. Senza voler polemizzare c’è la responsabilità del clero in tante odierne esagerazioni. Non a caso già Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI sta combattendo la “sciatteria” liturgica. Io non riesco a capire perché i ragazzi possono cantare i canti Gen e non Adoro te devote di Tommaso d’Aquino (e la linea telefonica diventa ancora un microfono, ndr…) I canti moderni spesso hanno testi letterari molto belli, ma purtroppo la musica ricalca la balera... Mentre i canti gregoriani, mi creda, ti portano in Paradiso. Per questo oggi molti sacerdoti si stanno ricredendo. Oltretutto possono essere anche strumento di evangelizzazione…

In che senso?
Anche nel mio coro ho tanti non credenti. Sono certo attirati dalla melodia, ma poi si soffermano sui testi che sono tutti legati alle Scritture. Quando tu canti Beati mundo corde, il canto delle Beatitudini, è un messaggio che risponde alle esigenze di ogni uomo di diverso credo e visione filosofica. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio… Beati gli afflitti… Beati i perseguitati...”. Questa è una poesia universale.

Però c’è un ritorno d’interesse per il gregoriano anche nel mercato discografico…
Sì magari i compositori moderni che lavorano su nuove melodie gregoriane non sono molto conosciuti, anche perché lo fanno per servizio liturgico, non per diventare delle star. Hanno avuto però grande successo i monaci dell’abbazia di Santo Domingo di Silos in Spagna. Son riusciti a scalare le classifiche anche perché hanno fatto molta pubblicità. Aiutano certo a diffondere il gregoriano, ma noi lo dobbiamo trovare anche domenica a messa: non può scomparire questo canto che nella Chiesa c’è sempre stato. Nel Medioevo ha raggiunto la sua massima fortuna, ha sempre scandito le giornate dei monaci. Oggi ben venga la pubblicità: io stesso uso tutti gli strumenti digitali, come i social network, per far conoscere il gregoriano. Solo su “you tube” ho pubblicato 2420 video che servono anche per studiare: mi hanno scritto perfino molti monaci per ringraziarmi.

In rete (e non solo) spopola anche il gregoriano rivisto in chiave rock, perfino nei brani più famosi dei Metallica…
Non mi meraviglio. Il gregoriano ha influenzato il rock. Prenda anche un brano come Ubi caritas est vera di Paolino di Aquileia si presta benissimo a delle variazioni in stile rock. Ma la stessa Yesterday dei Beatles riprende antiche melodie gregoriane. Pensi anche al brano “Fratello sole sorella luna”: è il Kyrie della Missa De Angelis sviluppato a mo’ di bella canzonetta. Non vorrei essere irrispettoso: io stimo tutti i generi musicali quando c’è un lavoro serio dietro. Tutti i generi, anche il rock. Non voglio passare per invasato: credo soltanto che il gregoriano risponda anche a un bisogno profondo della nostra società…

Quale?
C’è una forte ricerca di spiritualità. La cronaca ci mostra un decadimento morale in tutti i campi. C’è una richiesta di silenzio e di fede e il gregoriano viene incontro a questo bisogno in modo potente. Noi adesso stiamo usando delle parole, ma lei provi a sentir e a cantare il gregoriano…

Faccia pure lei, è già un’intervista cantata…
C’è una bellezza del gregoriano che le parole non possono esprimere. Io sono un uomo felice e fiero perché vedo che la gente cantando percepisce questa sensazione d’incanto. Sono cresciuto in Chiesa, sono stato organista per 20 anni al Duomo e oggi mi dedico a tempo pieno alla divulgazione del canto gregoriano e ambrosiano (un canto monodico, a una voce come il gregoriano, ma con melodie diverse). Studio dalle 4 alle 6 ore al giorno. Non posso dire di avere un pezzo preferito, ma certo sono estasiato dall’Adoro te devote di san Tommaso d’Aquino e soprattutto Jesu dulcis memoria di san Bernardo. Però davvero ogni brano gregoriano ha un suo fascino "travolgente", mi permetta di definirlo così. Vede, a volte faccio fatica a non farmi scorgere, ma mi commuovo davvero.




intervista di Antonio Giuliano, titolo orig. E venne il giorno del gregoriano in Tv, da La bussola quotidiana.

immagini da www.cantogregoriano.it

Tu nostri bone Jesu, miserere


Belluno, Museo Civico, Cristo crocifisso di Andrea Brustolon.


Filiae maestae Jerusalem,
en Rex universorum,
Rex vester vulneratus
et spinis coronatus;
ut maculas detergat peccatorum
factus est Rex dolorum.
Ecce moritur vita
in durissima cruce;
ecce videte et non eam
sed nos potius lugete;
at nequis reprobare vestros fletus,
immo lugeant vobiscum
omnia insensata, plorent,
plorent cuncta creata.
Sileant zephyri,
rigeant prata
unda amata,
frondes, flores non satientur.
Mortuo flumine,
proprio lumine
luna et sol etiam priventur.
Sed tenebris diffusis
obscurantus est sol,
scinditur quoque velum,
ipsa saxa franguntur
et cor nostrum non frangit vis doloris?
At dum satis non possumus dolere
tu nostri, bone Jesu, miserere.



Don Antonio Vivaldi, Filiae Maestae Jerusalem RV 638, mottetto d'introduzione al Miserere.

immagine da g.immage.

I dilemmi al Pater Noster

 
Durante la Santa Messa, oggi, è difficile trovare un momento in cui vi sia una tale varietà di comportamenti come durante la recita (o il canto) del Padre Nostro.
Subito dopo la solenne dossologia che conclude la Preghiera Eucaristica, dopo l'invito del sacerdote, ecco scatenarsi la fantasia di fedeli ed animatori della liturgia: alcuni sono inginocciati, altri seduti, altri ancora (la maggior parte) in piedi. C'è chi tiene le mani giunte (non troppi), chi dietro la schiena, chi incrociate sul petto, chi a penzoloni lungo i fianchi. Da alcuni decenni ha acquistato una certa rilevanza il gesto di tenere le braccia allargate, come del resto quello di prendere la mano del vicino formando una sorta di "catena".
Vien da chiedersi, qui come in altri ambiti: esiste una normativa, un'indicazione da parte della Chiesa?
Vediamo di rispondere.
Per quanto riguarda la forma ordinaria del rito romano - frequentata dalla stragrande maggioranza dei fedeli - l'Ordinamento Generale del Messale Romano (n. 43)(editio typica del 2002) prescrive che i fedeli rimangano in piedi (anche se, come abbiamo evidenziato tempo fa sulla scorta di un pronunciamento della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, rimane comunque possibile inginocchiarsi o sedersi).
Per quanto riguarda l'Italia, nel 1983 la Cei ha stabilito (nelle Precisazioni alla II editio typica del Messale)(n. 1) che "Durante il canto o la recita del Padre nostro, si possono tenere le braccia allargate; questo gesto, purché opportunamente spiegato, si svolga con dignità in clima fraterno di preghiera."
Non entriamo qui nella disputa relativa alla validità giuridica di questa prescrizione; ci accontentiamo di aver segnalato questa disposizione.
Queste appena elencati sono i pronunciamenti della Chiesa, da cui si deduce che l'atteggiamento più consono è quello di pregare il Padre Nostro rimanendo in piedi.
Riguardo al tenere le braccia allargate, si tratta di un gesto eminentemente sacerdotale, che potrebbe ingenerare confusione nei fedeli se non adeguatamente spiegato: v'è infatti il rischio che essi vadano (almeno inconsciamente) perdendo la distinzione esistente tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale (errore da cui già metteva in guardia il venerabile Pio XII nella Mediator Dei; lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1547) sottolinea la differenza essenziale tra questi due sacerdozi).
E' andato invece perdendosi la consuetudine di tenere le mani unite: se è vero che questo gesto non risale ai primordi della liturgia, ma è successivo di diversi secoli, nondimeno vanno tenute a mente le parole di papa Pacelli, mai sconfessate dal Magistero della Chiesa: "Anche i riti liturgici più recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito Santo che è con la Chiesa fino alla consumazione dei secoli, e sono mezzi dei quali l'inclita Sposa di Gesù Cristo si serve per stimolare e procurare la santità degli uomini." (Mediator Dei) Sebbene qui si parli più strettamente di riti liturgici, ci pare comunque lecito, agendo per analogia, applicare queste parole anche ai gesti dei fedeli.
Come, infatti, non tener conto del bel significato che sta alla base del tenere le mani giunte? Si tratta di un un voler mettere le nostre mani - strumenti con i quali spesso agiamo - nel grembo del Dio Altissimo: quindi un riporre simbolicamente la nostra vita nel Signore, abbandonandosi a Lui con fiducia. E, del resto, non è forse la Santa Messa un momento adattissimo per esprimere un simile sentimento? In essa, infatti, si rinnova sacramentalmente il Sacrificio del Calvario, cioè l'atto supremo d'amore del Figlio di Dio che s'immola per la salvezza del genere umano, decaduto e traviato. Di fronte dunque a tanta carità, dono di Dio dovuto alla larghezza della Sua misericordia - e non certo ai nostri meriti - , come non fidarsi di Dio - e quindi esprimere ciò anche esteriormente? Certamente vi sono diversi gesti atti ad esternare un simile sentimento, ma è pur vero che quello di giungere le mani, provato da secoli di pratica liturgica, merita di essere riscoperto e valorizzato appieno, nonostante oggi sia da taluni piuttosto negletto.
Nella forma straordinaria del rito romano la situazione normativa è diversa, poiché in genere si preferì affidarsi alle consuetudini locali. Non esiste, quindi, una legge universale valida per tutti.
In genere, le mani vengono tenute unite; in alcuni luoghi si preferisce rimanere in piedi, mentre altrove si rimane in ginocchio. Entrambe le posture hanno una ragion d'essere: la prima è probabilmente più antica e deriva dall'uso paleocristiano, dove restare eretti era considerato un segno di rispetto verso chi è superiore. Quale luogo migliore per fare ciò, dunque, della Santa Messa, in cui la presenza del Signore non è solo di natura morale (come potrebbe avvenire in un semplice incontro di preghiera), ma sostanziale (nella Santissima Eucarestia)?
Ma col tempo si sviluppò anche un'altra postura: quella di rimanere inginocchiati. Essa è presente e frequente nella Sacra Scrittura (quanti episodi nei Sacri Vangeli!) e venne adottata, in parte, giù nel primo millennio cristiano - sebbene abbia avuto un ruolo maggiore nel secondo. Col tempo si approfondì e si rinvigorì la fede nella Presenza Reale del Signore nel Santissimo Sacramento; di fronte alla potenza di Dio e ai Suoi doni straordinari, divenne naturale porsi in ginocchio, sottolineando così la grave miseria dell'uomo peccatore di fronte al Suo Creatore. L'Exsultet pasquale canta "O inæstimabilis dilectio caritatis: ut servum redimeres, Filium tradidisti!" (O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato per il Tuo Figlio!): di fronte a tanta, immeritata carità, l'uomo s'abbassa dinanzi a Dio, che s'è degnato di riscattare le sue creature dal peccato.
Sia il rimanere inginocchiato che il rimanere in piedi, dunque, hanno ragioni a loro favore.
Concludiamo affermando che, ogni qualvolta si parla di aspetti "materiali" della Sacra Liturgia, c'è il rischio d'apparire come aridi rubricisti, interessati solo alle minuzie e non alla disposizione interiore. Non è questo lo spirito con cui discutiamo di atteggiamenti e rubriche: speriamo si sia capito, in questo testo, come non vi sia vero gesto esteriore se questo non è espressione e supporto della necessaria e fondamentale disposizione interiore.

 
immagini da Corbis

Iniziative quaresimali, tra digiuni (un po' informatici) e musica


A Venezia: Un digiuno nei sei venerdì di Quaresima per “aprire gli occhi, il cuore, le mani” è la proposta diocesana per questo tempo particolare. Sul sito www.patriarcatovenezia.it - in un apposito banner posto sulla sinistra dell’home page, appena rinnovata - sono riportate tutte le informazioni utili e i materiali suggeriti per accompagnare l’iniziativa promossa da vari uffici diocesani (Ufficio missionario, Pastorale Stili di Vita, Ufficio catechistico e Caritas veneziana) nell’intento, appunto, di “aprire gli occhi e vedere l'agire di Dio e collaborare con lui a costruire un mondo più giusto; aprire il cuore all'amore di Dio per amare con lui tutta l'umanità; aprire le mani ad una concreta condivisione della vita e di quanto la sostenta con chi è privo del necessario in ogni parte della terra”. 
Sul sito è possibile trovare, tra l’altro, il contenuto di uno speciale "buono pasto per l’anima", ossia una riflessione sul Vangelo della domenica per nutrire la preghiera ma anche l’elenco delle chiese aperte di venerdì, all’ora di pranzo, nelle varie zone del Patriarcato di Venezia. C’è, inoltre, la possibilità di condividere l’esperienza iscrivendosi alla “lista del digiuno” - lasciando anche, se si vuole, un breve messaggio - e viene, infine rilanciata, la proposta di devolvere il costo del pasto alla raccolta quaresimale “Un pane per amor di Dio” che sarà destinata ad attività e progetti dell’Ufficio missionario diocesano.

A Padova: "Se il cuore sopportasse i chiodi. Meditando davanti al Crocifisso", testi di Luigi Francesco Ruffato O.F.M. CONV., con la partecipazione dell'Ensemble della Cappella Antoniana. Musiche di Bach, Perosi, Habert, Buxtehude, Van Berchem. Venerdì 18 marzo, ore 20:45,  Chiesa di Santa Maria dei Servi.
 immagine da Flickr

Monsignor Giuliodori in arrivo a Vicenza?



Mentre sul sito della Diocesi vicentina si invita alla preghiera nell'attesa della nomina del nuovo Vescovo, la stampa già propone qualche nome...

Si stringe il cerchio dei «candidati» a ricoprire il ruolo di guida della diocesi di Vicenza. Dopo mesi di consultazioni sarebbe pronta una terna di nomi da portare a papa Benedetto XVI per la scelta del nuovo vescovo. E si fa sempre più insistente quella voce secondo il quale il successore di monsignor Cesare Nosiglia (diventato arcivescovo di Torino) sarà Claudio Giuliodori, dal 2007 vescovo di Macerata - Tolentino - Recanati - Cingoli - Treia. Ormai, stando alle indiscrezioni, la sua nomina sembra imminente. Chissà se la diocesi potrà festeggiare la Pasqua con il vescovo o se si dovrà attendere l’estate. Comunque sia, sembra oramai certo che il nuovo pastore non sarà vicentino. E il desiderio manifestato da un gruppo di sacerdoti di poter contare sulla nomina dell’attuale vicario monsignor Ludovico Furian pare lontano dal realizzarsi.
Anche perché nella terna indicata far compagnia a monsignor Giuliodori ci sarebbero due vescovi ausiliari: Beniamino Pizziol in servizio a Venezia e Franco Giulio Brambilla attualmente nell’arcidiocesi di Milano. I due sembrano, comunque, meno «quotati » rispetto a Giuliodori. Quest’ultimo, nato in provincia di Ancona nel 1958, vanta un notevole curriculum. Vicino al cardinale Camillo Ruini, nel 1998 è stato nominato direttore dell’ufficio nazionale per le comunicazioni della Conferenza episcopale italiana. Nell’ottobre 2006 è stato nominato dal papa consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali; dal 2002 è direttore responsabile della rivista delle Giornate mondiali della gioventù. E’ stato anche professore al Laterano quando la pontificia università era guidata da Angelo Scola, attuale patriarca di Venezia, e di recente ha ricevuto la nomina a presidente della Commissione Cultura della Cei. Intanto, in attesa di conoscere il nuovo prelato, Vicenza si prepara al Festival Biblico, uno dei fiori all’occhiello della «gestione» Nosiglia. Martedì 22 marzo all’Araceli di Vicenza il filosofo Salvatore Natoli disquisirà in anteprima sul tema di quest’anno: «Di generazione in generazione: un filo interrotto?».

El.Ra.
Mons. Claudio Giuliodori
   
articolo da Il Corriere del Veneto, titolo orig. I candidati vescovi di Vicenza Claudio Giuliodori è in pole position

immagini da Panoramio, Flickr

Digiuni benedettini e spunti per la Quaresima

Abbazia di Praglia, Teolo


Due frammenti del medesimo autore, padre Adalbert de Vogüe O.S.B., sul tema del digiuno. Il monaco benedettino tratta dell'argomento con specifico riferimento alla situazione monastica, ma sicuramente alcuni punti possono interessare chiunque si trovi a vivere il periodo quaresimale.
«La continenza alimentare nelle nostre regole non è oggetto di nessuna teoria. Che il monaco debba praticare digiuno e astinenza [...] è talmente evidente da non aver bisogno di giustificazione. [...] Questo laconismo e questa carenza si fanno sentire tanto più oggi quanto il significato delle restrizioni alimentari, e perfino la loro pratica, ci è sempre meno familiare. [...] Quanto ai monaci, le loro osservanze caratteristiche, già molto attenuate, ora tendono ad assottigliarsi e a scomparire. [...] Tutto va come se il genere umano - ed è ciò che si dice spesso - fosse caduto in un tale stato di debolezza da dover rinunciare ad ogni ascesi fisica per quanto leggera possa essere.
Questa spiegazione, diciamolo pure, ci lascia insoddisfatti. Quando l'uomo sperimenta intensamente un'esigenza, trova la forza di soddisfarla e anche il modo di organizzare la propria vita in conformità. Se l'ascesi non ha più spazio nelle nostre vite, è perché non ne sentiamo più l'importanza. Noi abbiamo tanta forza quanto ne avevano i nostri Padri, solo che la impieghiamo diversamente. I monaci non hanno abbandonato il digiuno per mancanza di salute, ma perché non avevano più motivo di digiunare.
La nostra impotenza a questo riguardo è dunque prima di tutto un fatto spirituale, che richiede spiegazioni spirituali. Una delle più profonde è indubbiamente l'estroversione del dinamismo umano, che, trascurando lo sforzo su se stessi, si è completamente investito nel lavoro sulle cose.»

(Adalbert de Vogüe, La Regola di San Benedetto. Commento dottrinale e spirituale, Bresseo di Teolo, Edizioni Scritti Monastici, 1998, pp. 318-320; 330)

«Il nostro regime attuale differisce da tale austerità moderata ma reale [quella di san Benedetto, ndr], per l'assenza di ogni digiuno effettivo. Per quanto ne sappiamo, non c'è monastero in cui non si mangi tre volte, ogni giorno dell'anno [...] Spesso, almeno in ambiente anglosassone, vi si aggiunge un caffè nella mattinata e un thè a metà pomeriggio. La quaresima ecclesiastica dà luogo a restrizioni più o meno importanti e obbligatorie, che consistono per esempio nel ridurre la colazione e la cena. Quanto al digiuno «monastico» [...] è caratterizzato solo da modifiche leggerissime, quasi simboliche, come l'astinenza dalla carne nei pasti principali e la soppressione del latte a colazione. [...]
Attualmente dunque nulla sopravvive della disciplina alimentare stabilita da san Benedetto. Neppure un giorno all'anno ci accontentiamo di un solo pasto al giorno, e neppure di due. [...] Perché i monaci di ogni colore si sono accordati, nella nostra epoca, per abbandonare un'osservanza tanto caratteristica del monachesimo e così chiaramente fissata nella Regola?
La spiegazione più corrente, che mi fu fornita in noviziato circa quarant'anni fa, consiste nell'invocare la salute debole dell'uomo moderno. [...] Tuttavia un'esperienza recente mi ha dimostrato che tale spiegazione è totalmente falsa. [...] Per esperienza, credo di poter affermare che la nostra allergia moderna al digiuno non è questione di forze diminuite, ma di giudizio e di volontà deboli. La causa non è di ordine fisico, ma spirituale. [...] un uomo di oggi, di forze medie e di salute normale, può facilmente seguire il programma della Regola. Per arrivarvi, basta una giusta capacità di giudizio e una determinazione ferma della volontà, che alimenti uno sforzo sostenuto e progressivo. [...] Ma ritorniamo alla nostra: perché non pratichiamo più il digiuno? [...] si può in ogni caso dare largo spazio al fattore che, con ogni evidenza, ha giocato e gioca un ruolo determinante: la perdita di tono e di convinzione. [...] mentre la passione politica mobilita l'energia dei nostri contemporanei, l'ideale monastico - triste a dirsi - non ha più questo potere di mobilitazione. [...] Se i monaci non digiunano, è in ultima analisi perché non ne hanno motivo, perché non ci credono.
Quali potrebbero essere allora le considerazioni capaci di motivarci al digiuno? [...]
In primo luogo è vero, come dice Cassiano, che il digiuno ha un ruolo chiave nel controllo delle passione. Salta agli occhi la sua relazione speciale con la castità. [...] Vi si può aggiungere un vantaggio secondario ma non disprezzabile: il tempo guadagnato [...] [infatti] si guadagna un tempo notevole su tutto ciò che circonda il pasto: cucinare e apparecchiare, riunirsi e mettersi a tavola, riunire e lavare i piatti: tutto questo ha luogo una volta invece che tre. Il tempo in tal modo liberato diventa disponibile per la lettura e la preghiera, anch'esse facilitate dal digiuno [...]
Si potrebbe aggiungere un altro effetto benefico: la differenziazione dei giorni e delle stagioni. Rompendo la monotonia dei tre pasti quotidiani, la disciplina del digiuno distingue i giorni feriali dalla domenica, i periodi di sforzo da quelli di calma. [...] Un'altra differenza, la più importante, è quella che il digiuno stabilisce tra vita monastica e vita secolare. La nostra vita monastica attualmente manca di contenuto specifico [...] non si distingue molto, per altri versi, da quella che si conduce nel mondo: conversazioni e letture (pensiamo ai giornali), cibo, sonno, vestito, tutto questo è molto simile o completamente identico a ciò che si vive fuori clausura. La mancanza di originalità e di vigore che ne risulta non rende questo tipo di vita attraente ed interessante. [...]
Si può obiettare che l'unica rottura che conta è rompere con il peccato [...]. Senza dubbio, ma questa consacrazione in spirito e verità non può fare a meno di gesti concreti che la significano e la realizzano. [...]
Non si tratta di rifiutarsi il necessario, né di affamarsi. Un'ascesi di questo tipo non è forse senza interesse, quando è contenuta nei giusti limiti, ma non si tratta di questo. Digiunare non è principalmente questione di quantità, ma di tempo: si prende il necessario, ma solo una volta al giorno, nel momento scelto, alla fine di una certa attesa. [...] ritorniamo, per finire, all'essenziale, che è, come dice san Benedetto, «amare il digiuno». I monaci di oggi non lo praticano più, non sanno neppure più che cosa sia. Come potrebbero «amarlo»? Amore e pratica vanno insieme. Noi non possiamo praticare il digiuno se non l'amiamo, ma per amarlo abbiamo bisogno di sperimentare i suoi vantaggi, perciò di praticarlo. Beato chi spezzerà questo circolo, fidandosi della Regola e provando!»

(Adalbert de Vogüe, La comunità. Ordinamento e spiritualità, Bresseo di Teolo, Edizioni Scritti Monastici, 1991, pp. 346-350; 352-353; 355-358)
 immagine da Flickr.

Al via Koinè, la fiera della suppellettile liturgica


L'arte (moderna) al servizio della Liturgia: dalla pianeta all'ambone mobile, dal velo da calice al messale su IPhone, tutto in mostra a Vicenza dal 12 al 15 marzo. Giunta alla sua quattordicesima edizione, Koinè anche quest'anno propone una serie di interessanti iniziative, come la giornata di studio dedicata all'adeguamento liturgico degli spazi celebrativi.

Etiam pro nobis


Venezia, Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari, Altare del Crocifisso.


Don Antonio Vivaldi, Credo RV 591, Crucifixus

Le Ceneri di Sua Santità, con quel po' di tecnologia








immagini da CORBIS

Non soltanto l'Ultima Cena



"Un arcaismo che volesse tornare a prima della Risurrezione e della sua dinamica ed imitare soltanto l'Ultima Cena, non corrisponderebbe affatto alla natura del dono che il Signore ha lasciato ai discepoli".
Lo scrive il Papa nella seconda parte del suo "Gesu' di Nazaret".
"Con l'Eucaristia - spiega - e' stata istituita la Chiesa che diventa se stessa a partire dal Corpo di Cristo e insieme, a partire dalla sua morte, e' resa aperta verso la vastita' del mondo e della storia". Dunque, spiega Benedetto XVI marcando una forte differenza con la concezione protestante della messa come "memoriale" della cena di Gesu' con i discepoli, "l'Eucaristia e' al contempo il visibile processo del riunirsi, un processo che nel luogo e attraverso tutti i luoghi e' un entrare in comunione con il Dio vivente che dall'interno avvicina gli uni agli altri.
La Chiesa si forma a partire dall'Eucaristia. Da essa riceve la sua unita' e la sua missione. La Chiesa deriva dall'Ultima Cena, ma proprio per questo deriva dalla Morte e Risurrezione di Cristo, anticipate da Lui nel dono del suo corpo e del suo sangue".
Dopo l'Ascensione, del resto, "il Signore viene mediante la sua parola; viene nei sacramenti, specialmente nella santissima Eucaristia; entra nella mia vita mediante parole o avvenimenti". Per il Papa "esistono, però, anche modi epocali di tale venuta" e cita in proposito "l’operare delle due grandi figure di Francesco e Domenico, tra il XII e il XIII secolo"; che "è stato un modo in cui Cristo è entrato nuovamente nella storia, facendo valere in modo nuovo la sua parola e il suo amore; un modo in cui Egli ha rinnovato la Chiesa e mosso la storia verso di sé. Una cosa analoga - secondo Ratzinger - possiamo dire delle figure dei santi del XVI secolo: Teresa d’Avila, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio portano con sé nuove irruzioni del Signore nella storia confusa del loro secolo che andava alla deriva allontanandosi da Lui.
Il suo mistero, la sua figura appare nuovamente, e soprattutto: la sua forza, che trasforma gli uomini e plasma la storia, si rende presente in modo nuovo". 

© Copyright (AGI) 

di Salvatore Izzo, titolo originale LIBRO PAPA: LA MESSA NON SOLO MEMORIALE MA RINNOVA SACRIFICIO GESU'

immagine Corbis



La Quaresima è accompagnare Gesù che sale a Gerusalemme




La Catechesi di Benedetto XVI in occasione dell'Udienza Generale nel Mercoledì delle Ceneri 2011.

Cari fratelli e sorelle,

Oggi, segnati dall’austero simbolo delle Ceneri, entriamo nel Tempo di Quaresima, iniziando un itinerario spirituale che ci prepara a celebrare degnamente i misteri pasquali. La cenere benedetta imposta sul nostro capo è un segno che ci ricorda la nostra condizione di creature, ci invita alla penitenza e ad intensificare l’impegno di conversione per seguire sempre di più il Signore.

La Quaresima è un cammino, è accompagnare Gesù che sale a Gerusalemme, luogo del compimento del suo mistero di passione, morte e risurrezione; ci ricorda che la vita cristiana è una "via" da percorrere, consistente non tanto in una legge da osservare, ma nella persona stessa di Cristo, da incontrare, da accogliere, da seguire. Gesù, infatti, ci dice: "Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua" (Lc 9,23). Ci dice, cioè, che per giungere con Lui alla luce e alla gioia della risurrezione, alla vittoria della vita, dell’amore, del bene, anche noi dobbiamo prendere la croce di ogni giorno, come ci esorta una bella pagina dell’Imitazione di Cristo: "Prendi, dunque, la tua croce e segui Gesù; così entrerai nella vita eterna. Ti ha preceduto lui stesso, portando la sua croce (Gv 19,17) ed è morto per te, affinché anche tu portassi la tua croce e desiderassi di essere anche tu crocifisso. Infatti, se sarai morto con lui, con lui e come lui vivrai. Se gli sarai stato compagno nella sofferenza, gli sarai compagno anche nella gloria" (L. 2, c. 12, n. 2). Nella Santa Messa della Prima Domenica di Quaresima pregheremo: "O Dio nostro Padre, con la celebrazione di questa Quaresima, segno sacramentale della nostra conversione, concedi ai tuoi fedeli di crescere nella conoscenza del mistero di Cristo e di testimoniarlo con una degna condotta di vita" (Colletta). E’ un’invocazione che rivolgiamo a Dio perché sappiamo che solo Lui può convertire il nostro cuore. Ed è soprattutto nella Liturgia, nella partecipazione ai santi misteri, che noi siamo condotti a percorrere questo cammino con il Signore; è un metterci alla scuola di Gesù, ripercorrere gli eventi che ci hanno portato la salvezza, ma non come una semplice commemorazione, un ricordo di fatti passati. Nelle azioni liturgiche, Cristo si rende presente attraverso l’opera dello Spirito Santo, quegli avvenimenti salvifici diventano attuali. C’è una parola-chiave che ricorre spesso nella Liturgia per indicare questo: la parola "oggi"; ed essa va intesa in senso originario e concreto, non metaforico. Oggi Dio rivela la sua legge e a noi è dato di scegliere oggi tra il bene e il male, tra la vita e la morte (cfr Dt 30,19); oggi "il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1,15); oggi il Cristo è morto sul Calvario ed è risuscitato dai morti; è salito al cielo e siede alla destra del Padre; oggi ci è dato lo Spirito Santo; oggi è tempo favorevole. Partecipare alla Liturgia significa allora immergere la propria vita nel mistero di Cristo, nella sua permanente presenza, percorrere un cammino in cui entriamo nella sua morte e risurrezione per avere la vita.

Nelle domeniche di Quaresima, in modo del tutto particolare in quest’anno liturgico del ciclo A, siamo introdotti a vivere un itinerario battesimale, quasi a ripercorrere il cammino dei catecumeni, di coloro che si preparano a ricevere il Battesimo, per ravvivare in noi questo dono e per far in modo che la nostra vita recuperi le esigenze e gli impegni di questo Sacramento, che è alla base della nostra vita cristiana. Nel Messaggio che ho inviato per questa Quaresima, ho voluto richiamare il nesso particolare che lega il Tempo quaresimale al Battesimo. Da sempre la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo, passo per passo: in esso si realizza quel grande mistero per cui l’uomo, morto al peccato, è reso partecipe della vita nuova in Cristo Risorto e riceve lo Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Rm 8,11). Le Letture che ascolteremo nelle prossime domeniche e alle quali vi invito a prestare speciale attenzione, sono riprese proprio dalla tradizione antica, che accompagnava il catecumeno nella scoperta del Battesimo: sono il grande annuncio di ciò che Dio opera in questo Sacramento, una stupenda catechesi battesimale rivolta a ciascuno di noi. La Prima Domenica, chiamata Domenica della tentazione, perché presenta le tentazioni di Gesù nel deserto, ci invita a rinnovare la nostra decisione definitiva per Dio e ad affrontare con coraggio la lotta che ci attende per rimanergli fedeli. Sempre c'è di nuovo questa necessità di decisione, di resistere al male, di seguire Gesù. In questa Domenica la Chiesa, dopo aver udito la testimonianza dei padrini e dei catechisti, celebra l’elezione di coloro che sono ammessi ai Sacramenti pasquali. La Seconda Domenica è detta di Abramo e della Trasfigurazione. Il Battesimo è il sacramento della fede e della figliolanza divina; come Abramo, padre dei credenti, anche noi siamo invitati a partire, ad uscire dalla nostra terra, a lasciare le sicurezze che ci siamo costruite, per riporre la nostra fiducia in Dio; la meta si intravede nella trasfigurazione di Cristo, il Figlio amato, nel quale anche noi diventiamo "figli di Dio". Nelle Domeniche successive viene presentato il Battesimo nelle immagini dell’acqua, della luce e della vita. La Terza Domenica ci fa incontrare la Samaritana (cfr Gv 4,5-42). Come Israele nell’Esodo, anche noi nel Battesimo abbiamo ricevuto l’acqua che salva; Gesù, come dice alla Samaritana, ha un’acqua di vita, che estingue ogni sete; e quest’acqua è il suo stesso Spirito. La Chiesa in questa Domenica celebra il primo scrutinio dei catecumeni e durante la settimana consegna loro il Simbolo: la Professione della fede, il Credo. La Quarta Domenica ci fa riflettere sull’esperienza del "Cieco nato" (cfr Gv 9,1-41). Nel Battesimo veniamo liberati dalle tenebre del male e riceviamo la luce di Cristo per vivere da figli della luce. Anche noi dobbiamo imparare a vedere la presenza di Dio nel volto di Cristo e così la luce. Nel cammino dei catecumeni si celebra il secondo scrutinio. Infine, la Quinta Domenica ci presenta la risurrezione di Lazzaro (cfr Gv 11,1-45). Nel Battesimo noi siamo passati dalla morte alla vita e siamo resi capaci di piacere a Dio, di far morire l’uomo vecchio per vivere dello Spirito del Risorto. Per i catecumeni, si celebra il terzo scrutinio e durate la settimana viene consegnata loro l’orazione del Signore: il Padre nostro.

Questo itinerario della Quaresima che siamo invitati a percorre nella Quaresima è caratterizzato, nella tradizione della Chiesa, da alcune pratiche: il digiuno, l’elemosina e la preghiera. Il digiuno significa l’astinenza dal cibo, ma comprende altre forme di privazione per una vita più sobria. Tutto questo però non è ancora la realtà piena del digiuno: è il segno esterno di una realtà interiore, del nostro impegno, con l’aiuto di Dio, di astenerci dal male e di vivere del Vangelo. Non digiuna veramente chi non sa nutrirsi della Parola di Dio.

Il digiuno, nella tradizione cristiana, è legato poi strettamente all’elemosina. San Leone Magno insegnava in uno dei suoi discorsi sulla Quaresima: "Quanto ciascun cristiano è tenuto a fare in ogni tempo, deve ora praticarlo con maggiore sollecitudine e devozione, perché si adempia la norma apostolica del digiuno quaresimale consistente nell’astinenza non solo dai cibi, ma anche e soprattutto dai peccati. A questi doverosi e santi digiuni, poi, nessuna opera si può associare più utilmente dell’elemosina, la quale sotto il nome unico di ‘misericordia’ abbraccia molte opere buone. Immenso è il campo delle opere di misericordia. Non solo i ricchi e i facoltosi possono beneficare gli altri con l’elemosina, ma anche quelli di condizione modesta e povera. Così, disuguali nei beni di fortuna, tutti possono essere pari nei sentimenti di pietà dell’anima" (Discorso 6 sulla Quaresima, 2: PL 54, 286). San Gregorio Magno ricordava, nella sua Regola Pastorale, che il digiuno è reso santo dalle virtù che l’accompagnano, soprattutto dalla carità, da ogni gesto di generosità, che dona ai poveri e ai bisognosi il frutto di una nostra privazione (cfr 19,10-11).

La Quaresima, inoltre, è un tempo privilegiato per la preghiera. Sant’Agostino dice che il digiuno e l’elemosina sono "le due ali della preghiera", che le permettono di prendere più facilmente il suo slancio e di giungere sino a Dio. Egli afferma: "In tal modo la nostra preghiera, fatta in umiltà e carità, nel digiuno e nell’elemosina, nella temperanza e nel perdono delle offese, dando cose buone e non restituendo quelle cattive, allontanandosi dal male e facendo il bene, cerca la pace e la consegue. Con le ali di queste virtù la nostra preghiera vola sicura e più facilmente viene portata fino al cielo, dove Cristo nostra pace ci ha preceduto" (Sermone 206, 3 sulla Quaresima: PL 38,1042). La Chiesa sa che, per la nostra debolezza, è faticoso fare silenzio per mettersi davanti a Dio, e prendere consapevolezza della nostra condizione di creature che dipendono da Lui e di peccatori bisognosi del suo amore; per questo, in Quaresima, invita ad una preghiera più fedele ed intensa e ad una prolungata meditazione sulla Parola di Dio. San Giovanni Crisostomo esorta: "Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà con la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza" (Omelia 6 sulla Preghiera: PG 64,466).

Cari amici, in questo cammino quaresimale siamo attenti a cogliere l’invito di Cristo a seguirlo in modo più deciso e coerente, rinnovando la grazia e gli impegni del nostro Battesimo, per abbandonare l’uomo vecchio che è in noi e rivestirci di Cristo, per giungere rinnovati alla Pasqua e poter dire con san Paolo "non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20). Buon cammino quaresimale a voi tutti! Grazie!


Testo da Sala Stampa della Santa Sede, immagini Corbis
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