Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Una liturgia "prossima al popolo di Dio"




Una stoccata in piena regola quella mossa dai Vescovi del Triveneto ai responsabili delle celebrazioni liturgiche della visita di Papa Benedetto XVI e del secondo Convegno Ecclesiale Triveneto: proprio durante la chiusura di quest'ultimo, al momento dei ringraziamenti, Mons. De Antoni ha precisato che i curatori delle celebrazioni sono stati raggiunti dalla richiesta di rendere la liturgia "prossima al popolo di Dio" provocando il plauso plateale dei partecipanti (Vescovi compresi). Proseguendo, l'Arcivescovo ha precisato che nel celebrare "vogliamo riconoscere il primato di Dio nella nostra vita". L'accaduto -di cui, sinceramente, non c'eravamo nemmeno accorti- ci è stato segnalato da un attento lettore. 
Forse un'équipe liturgica troppo "romana" o mancava il ritmo

A voi l'imperdibile video (da 3:04:19), :


Moraglia è presidente




Il Patriarca di Venezia mons. Francesco Moraglia è il nuovo presidente della Conferenza Episcopale Triveneto (Cet): l’elezione è avvenuta stamane [29 maggio 2012, nrd] alla scadenza naturale dei mandati quinquennali - durante la riunione ordinaria dei Vescovi del Nordest svoltasi a Zelarino (Venezia) ed iniziata sotto la presidenza di mons. Dino De Antoni, arcivescovo di Gorizia. Nella stessa occasione i Vescovi hanno eletto mons. Luigi Bressan, arcivescovo di Trento, vicepresidente e mons. Giuseppe Pellegrini, vescovo di Concordia - Pordenone, segretario della Cet. Nell’assumere la presidenza, mons. Moraglia ha quindi espresso stima e apprezzamento per il lavoro svolto dai vescovi e in particolare della presidenza uscente (mons. De Antoni presidente, mons. Mattiazzo vicepresidente e mons. Bressan segretario). I Vescovi hanno dedicato una parte del loro periodico incontro ad una valutazione sul recente convegno ecclesiale triveneto (“Aquileia 2”) vissuto a Grado ed Aquileia dal 13 al 15 aprile 2012: si è riconosciuto ed apprezzato, in particolare, il valore e la bellezza di un gesto ecclesiale che ha visto la partecipazione gioiosa e appassionata delle Chiese del Nordest nelle sue varie componenti, tra cui molti laici. L’ampio lavoro di analisi e proposta è stato preso in attenta considerazione dall'episcopato triveneto che intende, a breve, rivolgere alle Chiese della regione una nota/lettera pastorale su priorità, attenzioni e collaborazioni pastorali che, a seguito di “Aquileia 2”, potranno essere attivate e perseguite.

Splendori patavini: un mottetto per il vescovo Stefano




Una rara testimonianza della musica paraliturgica del medioevo veneto, con tanto di location e protagonisti: il mottetto celebrativo O felix templum jubila di Johannes Ciconia restituisce davvero un piccolo scorcio di solennità nella cattedrale di Padova agli inizi del '400 

La composizione, caratterizzata da imitazioni ed ornamentazioni, da interventi solistici e fanfare e dalla ieratica chiusura omoritmica, si configura su un testo costruito attorno alla figura del vescovo Stefano Da Carrara "applaudito" dall'intero Capitolo canonicale della Cattedrale, di cui lo stesso compositore Johannes Ciconia è parte integrante, tanto da potersi permettere il personale omaggio al vescovo, inserendosi direttamente nella composizione, eseguita forse in occasione dell'ordinazione episcopale del decantato oppure per celebrare la fine dei lavori di restauro a cui fu sottoposta la Cattedrale in quel periodo, lavori che il mottetto sembra citare.


O felix templum jubila
et cohors Tua Canonici
nunc plaudat corde suplici
 tu Clere viso rutila, 

qui presul divi muneris
de summo missus Cardine
uno justo nato dardane 
est pastore sacre oneris. 

Tu genitoris Stephane
o plaustriyer illustrissime
virtute splendidissime
sunt tui factis consone. 

Fano novo aris et multis 
superis Quas dedicasti 
ad astra iter jam parasti 
tibi et cunctis tui Laris. 

Precor patre o Digna proles 
iustamitis est Modesta 
vitiorum ac in festa 
virtutibus que redoles. 


Dignare me Ciconiam
Tanti Licet sim indignus
tui habere in cordis pignus, 
es benignus quoniam, Amen.





 




O fortunato tempio, gioisci,
e la tua schiera, i canonici, 
ora plauda con cuore supplichevole
Tu, o clero, risplendi in volto

Infatti, che, presule del divino mistero,
è stato mandato dal sublime polo
che a sua volta discende dal giusto Dardano, 
è pastore del sacro onere.

Tu Stefano, corona del genitore,
o celebratissimo auriga,
le tue luminose qualità 
sono pari alle tue azioni.

Con in nuovo santuario 
e con i molti altari che hai dedicato ai celesti
hai già preparato la via verso le stelle
per te e per tutta la tua famiglia

Ti supplico, o prole degna del padre,
giusta, mite e modesta, 
che non tolleri i vizzi e profumi di virtù

Degnati di me, Ciconia, 
per quanto indegno ne possa essere,
nel tuo cuore, poiché sei benigno. Amen


Il fiammingo Ciconia, dopo aver lavorato alla corte di Papa Bonifacio IX, si stabilì a Padova nel 1401 trovando una fiorente committenza musicale proprio negli ambienti della curia vescovile di Stefano Da Carrarail controverso presule-guerriero che da figlio illegittimo del principe Francesco II "il novello" signore di Padova approda prima (1393) al titolo di administrator in spiritualibus et temporalibus della diocesi padovana ed in seguito (1402) raggiunge con ampio consenso la mitria. Ma è nella figura dell'arciprete della Cattedrale, l'intellettuale Francesco Zabarella, all'epoca ambasciatore, giurista e professore allo Studio (poi arcivescovo di Firenze e cardinale) che Johannes trova suo diretto protettore che lo sistema tra i canonici con il titolo di mansionario e con un discreto beneficio, sino al 1403 quando, sempre grazie all'arciprete, Ciconia giunge all'ambitissimo titolo di custos et cantor del Capitolo, solitamente assegnato ad aristocratici.   



Lefevriani: spaccature epistolari



di Andrea Tornielli (per Vatican Insider) 
Un sito web ha reso noto lo scambio di lettere avvenuto un mese fa tra i vescovi Tissier de Mallerays, Alfonso de Gallareta e Richard Williamson, e il superiore della Fraternità San Pio X Bernard Fellay. La lettera dei tre vescovi, inviata a Fellay il 7 aprile, contiene un appello perentorio perché il superiore non firmi il preambolo dottrina e non accetti l’accordo proposto dalla Santa Sede, che – com’è noto – intende inquadrare i lefebvriani in una prelatura personale. «Le discussioni dottrinali – scrivono i tre vescovi in dissenso con Fellay - hanno provato che un accordo è impossibile con la Roma attuale» perché «dopo il Concilio Vaticano II le autorità ufficiali della Chiesa si sono separate dalla verità cattolica e oggi si mostrano determinate come prima a rimanere fedeli alla dottrina e alla pratica conciliari». Tissier, de Gallareta e Williamson ricordano che alcuni mesi prima di morire monsignor Lefebvre nel corso di una conferenza disse che «il problema non sono errori particolari sui singoli documenti conciliari, ma piuttosto una perversione totale dello spirito, di tutta una filosofia nuova fondata sul soggettivismo». I tre vescovi osservano che anche «il pensiero del Papa attuale è impregnato di soggettivismo. C’è tutta la fantasia soggettiva dell’uomo al posto della realtà oggettiva di Dio. È tutta la religione cattolica a essere sottomessa al mondo moderno. Come possiamo credere – si chiedono – che un accordo pratico possa risolvere questo problema?». «Ci accettano in nome di un pluralismo relativista e dialettico – continuano i tre prelati – le autorità romane possono tollerare che la Fraternità continui a insegnare la dottrina cattolica ma loro si rifiutano di condannare la dottrina conciliare» Nella lettera i tre vescovi riportano anche un’altra espressione di Lefebvre, sostenendo che «è pericoloso mettersi nelle mani dei vescovi conciliari e della Roma modernista». E concludono avvertendo Fellay: «Voi state conducendo la Fraternità a un punto di non ritorno, a una profonda divisione», ipotizzando che l’accordo finirà per distruggerla. Dieci giorni dopo, Fellay risponde, con una lettera altrettanto lunga e articolata. La sua è una risposta molto interessante e significativa per comprendere cosa sta per accadere alla Fraternità, ormai alla vigilia dell’accordo con la Santa Sede. Il superiore della Fraternità ricorda che «la Chiesa attuale ha ancora Gesù Cristo come capo. Si ha l’impressione che voi siate talmente scandalizzati da non accettare più che questo possa essere ancora vero». «Per voi – chiede Fellay ai tre confratelli, consacrati illegittimamente come lui da Lefebvre nel 1988 - Benedetto XVI è ancora il Papa legittimo? Se lo è, Gesù Cristo può ancora parlare attraverso la sua bocca? Se il Papa esprime una volontà legittima che ci riguarda, che è buona e che non ci ordina nulla di contrario ai comandamenti di Dio, abbiamo il diritto di rifiutare, di rispedire al mittente questa volontà? Non credete che se il Signore ci guida, ci donerà così i mezzi per continuare la nostra opera?». «Il Papa ci ha fatto sapere – scrive ancora il superiore della Fraternità – che la preoccupazione di regolare la nostra situazione per il bene della Chiesa alberga nel cuore stesso del suo pontificato». Benedetto XVI «sapeva bene che sarebbe stato più facile per lui e per noi lasciare le cose così come stavano». «La vostra concezione della Chiesa – continua Fellay – è troppo umana e fatalista, voi vedete i pericoli, i complotti, le difficoltà, ma non vedete più l’assistenza della grazia e dello Spirito Santo». Il superiore della San Pio X invita i tre confratelli a non trasformare «degli errori del Concilio in super-eresie, facendole divenire un male assoluto, allo stesso modo in cui i liberali hanno dogmatizzato un concilio pastorale. I mai sono già abbastanza drammatici e noi non dobbiamo esagerarli». Infine, Fellay invita Tissier de Mallerais, de Gallareta e Williamson ad ammettere che la proposta della prelatura personale è ben diversa dalle proposte di accordo ricevute da Lefebvre nel 1988: «pretendere che nulla sia cambiato è un errore». E invita a considerare che problemi anche gravi nella Chiesa non si risolvono dall’oggi al domani, ma lentamente e gradualmente. Che significato hanno queste lettere, e soprattutto, possono interferire nel processo in corso? Pare proprio di no. Fotografano piuttosto l’esistenza, peraltro ben conosciuta, di posizione anche profondamente diverse all’interno della Fraternità. La responsabilità dei dialoghi e della trattativa con Roma è nelle mani di Fellay e dei suoi assistenti generali. La decisione è stata presa e bisogna attendere ancora qualche giorno per conoscere quale sarà il giudizio dei cardinali e la decisione finale del Papa. Tutto lascia intendere però che entro maggio l’accordo potrebbe essere annunciato. Si vedrà allora se e come gli altri vescovi aderiranno.

Lefevriani: largo al Sant'Uffizio



di Andrea Tornielli (per Vatican Insider)  
La risposta inviata in Vaticano il 17 aprile dal vescovo Bernard Fellay sarà esaminata nei prossimi giorni dai cardinali e vescovi nella «Feria Quarta» della Congregazione per la dottrina della fede, quindi la loro decisione sarà sottoposta a Benedetto XVI. Entro maggio si prevede la conclusione del percorso che dovrebbe riportare la Fraternità San Pio X, fondata da monsignor Lefebvre, nella piena comunione con Roma, 24 anni dopo le consacrazioni illegittime che portarono alla rottura e alla scomunica dello stesso arcivescovo tradizionalista e dei quattro sacerdoti da lui ordinati vescovi senza il mandato del Papa. Nel momento in cui sarà divulgata la decisione finale, verrà reso noto anche il testo del «preambolo dottrinale» che la Santa Sede ha sottoposto a Fellay e alla Fraternità, e che il superiore del gruppo tradizionalista ha restituito a Roma proponendo alcune modifiche non sostanziali. 
Negli ultimi giorni si sono moltiplicate le dichiarazioni di alcuni autorevoli esponenti della Fraternità San Pio X, in particolare dell’ala lefebvriana più favorevole al rientro nella piena comunione con Roma. Padre Niklaus Pfluger, primo assistente di Fellay, in una conferenza pubblica Hattersheim, in Germania, ha detto che il superiore della Fraternità nelle attuali circostanze non «considera possibile rifiutare la proposta del Papa», specificando che il volersi estraniare dal desiderio del Pontefice significherebbe «cadere nel sedevacantismo». Pfluger ha chiarito che rimangono dei punti di disaccordo e che la Fraternità rivendica la libertà di criticare alcuni punti dei documenti conciliari. E ha ricordato come già Lefebvre, nel 1988, aveva firmato un accordo dottrinale con la Santa Sede che conteneva «molte più concessioni (a livello dottrinale, ndr) da parte della Fraternità di quelle che Benedetto XVI domanda oggi». 
Molto significativo è anche l’editoriale di padre Franz Schmidberger, già superiore della Fraternità San Pio X, che nel numero di maggio del mensile del distretto tedesco scrive: «Se Roma ora ci richiama dall’esilio al quale ci ha costretto nel 1975 con l’abrogazione dell’approvazione» canonica della Fraternità, «e ancor più nel 1988 con il decreto di scomunica» ai vescovi consacranti e consacrati», allora «questo è un atto di giustizia e senza dubbio anche un atto di autentica cura pastorale di Papa Benedetto XVI». Ancor più significativo è l’editoriale di un altro membro storico della Fraternità, don Michele Simoulin, pubblicato nel numero di maggio del bollettino «Seignadou» del priorato di Saint-Joseph-des-Carmes: anche lui torna a parlare dell’accordo siglato da Lefebvre e Ratzinger nel 1988, spiegando che allora la rottura non avvenne a motivo del preambolo dottrinale di allora, ma per un motivo pratico. Lefebvre infatti non si fidò delle rassicurazioni vaticane circa la possibilità di poter consacrare un vescovo suo successore: «Non è dunque su una questione dottrinale, né su quella dello statuto offerto alla Fraternità – scrive don Simoulin – ma sulla data di consacrazione del vescovo concesso, che il processo si è arrestato». 
Don Simoulin, rispondendo alle obiezioni interne di quei lefebvriani che non vogliono l’accordo con Roma ricorda che Ratzinger, «divenuto Papa ci ha detto che la messa tridentina non è mai stata abrogata (7 luglio 2007 : «Perciò è lecito celebrare il sacrificio della messa secondo l’edizione tipica del messale romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato»); ha riabilitato i nostri quattro vescovi (21 gennaio 2009); ha accettato che conducessimo discussioni dottrinali per due anni, cose che monsignor Lefebvre non esigeva nel 1988. Non è esagerato dire che monsignor Fellay ha ottenuto più di quanto chiedesse monsignor Lefebvre, senza averne il prestigio né l’autorità morale. Dunque, dovremmo essere più esigenti di monsignor Lefebvre e di monsignor Fellay?». Simoulin conclude ribadendo dunque che la situazione odierna è diversa da quella del 1975 e del 1988, e chi afferma il contrario lo fa perché rifiuta «ogni riconciliazione con Roma» mostrando «forse anche una mancanza di fede sulla santità della Chiesa». «La Fraternità San Pio X non è la Chiesa e non può rispettare l’eredità del suo fondatore che conservandone lo spirito, il suo amore per la Chiesa e il suo desiderio di servirla come figlio che la ama». 
Rileggere la parte dottrinale del «protocollo d’intesa» firmato da Lefebvre il 5 maggio 1988 è utile per comprendere parte dei contenuti del «preambolo dottrinale» di cui si è parlato negli ultimi mesi, il cui testo è ancora riservato a motivo della possibilità, prevista fin dall’inizio, di modifiche e formulazioni con espressioni differenti. Il fondatore della Fraternità prometteva fedeltà al Papa, dichiarava «accettare la dottrina contenuta nel n° 25 della Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II sul magistero ecclesiastico e sull’adesione che gli è dovuta». Per quanto riguarda il dissenso su alcuni passaggi conciliari, affermava: «A proposito di certi punti insegnati dal Concilio Vaticano II o relativi alle riforme posteriori della liturgia e del diritto, che ci sembrano difficilmente conciliabili con la tradizione, ci impegniamo ad assumere un atteggiamento positivo e di comunicazione con la Sede apostolica, evitando ogni polemica». Inoltre, Lefebvre aveva dichiarato «di riconoscere la validità del sacrificio della messa e dei sacramenti celebrati con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa e secondo i riti indicati nelle edizioni tipiche del messale romano e dei rituali dei sacramenti promulgati dai Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II». E prometteva infine «di rispettare la disciplina comune della Chiesa e le leggi ecclesiastiche». Come si vede anche nel 1988, nel documento concordato con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, rimaneva nero su bianco l’esistenza di «certi punti» considerati dai lefebvriani «difficilmente conciliabili» con la tradizione. Ma questo dissenso non avrebbe dovuto impedire la piena comunione. Ventiquattro anni fa gli eventi presero un’altra direzione: ci fu un atto scismatico e ci furono le scomuniche. Ora, quasi un quarto di secolo dopo, quella ferita potrebbe essere rimarginata.
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