Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Il demonio incatenato: una rilettura della "macabra mascherata"



Rubiamo a http://www.cantualeantonianum.com un vecchio approfondimento sulla festa di Halloween. Puntualmente la nottata "spiritica" scatena le più fervide iniziative di protesta da parte di vescovi, sacerdoti e fedeli che sembrano però tacere in merito alle barbare usurpazioni del più becero consumismo nelle solennità di Natale e Pasqua, della festa di San Valentino e delle sagre paesane, dove si scomodano i patroni per organizare eventi che di religioso hanno solo il nome.

La vigilia di Tutti i Santi riproporrà le solite diatribe sulla festa di "importazione" chiamata Halloween. Carnevalata autunnale piena lanterne scavate nelle zucche, dove giovani e bambini si vestono da fantasmi e zombie orripilanti, e vanno in giro di notte a spaventarsi a vicenda, chiedendo ad ogni casa (dove si può fare): "Dolcetto o scherzetto?".
Ma questa festività è davvero satanica come alcuni pensano, o è semplicemente una sbiadita e secolarizzata riproposizione di una festa cristiana da rievangelizzare? Dirò di più: è in radice una festa cattolica, con più di 1300 anni di storia, ma la banalizzazione attuale la sta stravolgendo.
Iniziamo dal nome: Halloween viene dall'antico inglese All Hallows eve, indica cioè la vigilia della festa di tutti i Santi (Hallow è l'antico modo di dire santo, come si vede ancora nel Padre Nostro inglese: hallowed be thy name, sia santificato il tuo nome). Questa vigilia è festeggiata fin dall'VIII secolo, da quando cioè il Papa di Roma Gregorio III spostò al 1° Novembre la solennità di Tutti i Santi, pare su richiesta di monaci irlandesi (Papa Gregorio VI, su istanza del Re franco, estese la festività a tutto l'Occidente nell'835).
Il collegamento con feste autunnali di origine celtiche non è affatto così popolare prima della fine del XIX secolo, quando si inizia a parlare dell'apparentamento di Halloween con Samhain. Piuttosto si potrebbe dire che nell'area celtica sono sopravvissuti nella festa cristiana alcuni costumi del tempo pagano (per es. il falò, le lanterne, come è avvenuto per la festa di Natale e il suo albero). E' vero infatti che la data del 1° Novembre, fino all'epoca di Carlo Magno e oltre, era una specie di capodanno pagano dei paesi nordici, e lo spostamento a questa data della festa di Ognissanti, a cui presto si unì il ricordo dei defunti, poteva servire anche a battezzare e risignificare usi e tradizioni.
L'aspetto che più inquieta oggi, cioè i travestimenti da demoni, fantasmi e zombie, è invece certamente più cristiano che pagano. Non sto parlando delle streghe! Halloween non ha niente a che vedere con una "notte delle streghe". Questa sì che è una nota spuria, entrata con l'inganno nell'immaginario contemporaneo per aver dato credito proprio ai detrattori della festa. Sono invece di casa spiriti e anime dei morti, e anche qualche diavolo, perchè no. Non dimentichiamo che la festa di Tutti i Santi e la Commemorazione dei Defunti sono parenti stretti non solo nella liturgia, ma anche nell'immaginario popolare. Ci sono dei giorni particolari nel calendario antico, quando il velo che separa la terra dei vivi e quella dei morti si fa più sottile ed è possibile che questi ultimi passino di nuovo dalla "nostra" parte.
I primi attacchi alla festa di Halloween vengono dai cristiani protestanti
dell'Inghilterra posr-riforma. Essi cercano - vittoriosamente - di far abolire la cattolicissima festività di Ognissanti insieme alle tradizioni esterne del Natale. Questo accade nel 1647. I cattolici irlandesi fuggiti in America un paio di secoli dopo per cercare un luogo di libertà religiosa e un rifugio dalla carestia porteranno con sè le ataviche tradizioni.
Alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo, le proteste anti-Halloween avvengono proprio negli Stati Uniti e sono segnatamente anti-cattoliche (specificamente anti-irlandesi). La commercializzazione delle festività e la moda dei film horror degli anni '70 e '80, hanno contribuit, infine, a dare una cattiva nomea alla vigilia di Tutti i Santi.
La seconda persecuzione anti-cattolica di Halloween avviene negli anni '80
, condita di leggende metropolitane come il veleno nei dolcetti o le lame di rasoio nascoste nei lecca-lecca. Le accuse di paganesimo (cavalcate dal movimento New Age e Wiccan, che vi ha inserito abbondantemente le streghe), e di satanismo, insisti e insisti, fecero presa, rendendo sospetta la festività nata invece proprio per esorcizzare la paura della morte e del demonio. Jack Chick, famoso fumettista e fondamentalista anticattolico, guidò questo attacco.
Tanto potente fu l'aggressione culturale e mediatica alla festività, che anche molti genitori americani di origine cattolica, negli anni '90, finirono per credere alla propaganda. E' da allora che nelle parrocchie cattoliche americane si cercano dei sostituti e delle alternative alla "macabra mascherata".
Si sono imposte due alternative: a) Una festività di ringraziamento per il raccolto, e questa ha in realtà più punti di contatto con il mondo pagano di quanti ne abbia la festa infantile dei morti.
b) Un party a base di bambini vestiti da angioletti e santi celebri: un modo simpatico per cristianizzare una festa già cristiana.
In verità, la festa di Halloween, con il suo contorno funerario, non sarebbe altro che un modo di insegnare "ritualmente" ai bambini a non aver paura della morte. Forse è proprio l'esplicita menzione della morte e la sua esposizione che fa paura agli adulti, e la vogliono nascondere.
Ma il medioevo conviveva quotidianamente con la morte e la popolazione ne aveva certo meno timore da quando il cristianesimo le aveva insegnato che essa non è definitiva, ma è già stata sconfitta dalla Risurrezione di Cristo.
Ogni cattedrale cattolica nordica, se notate, ha quegli orrendi gargoiles di pietra: mostri sì, ma pietrificati. I codici miniati e i grandi dipinti nelle chiese sono pieni di demoni che svolazzano ai margini. Queste immagini sono assolutamente cattoliche. Perché? Perché Cristo ha vinto la morte e il diavolo, e l'ha incatenati. Dopo Cristo, la morte ha perso il suo pungiglione e ci si può scherzare insieme: abbaia come un cane alla catena, che a volte, se ti prende di sorpresa, ti può spaventare, ma non ti può azzannare. Il diavolo, pensando di poter fare prigioniero Cristo nella morte sulla croce, si è ritrovato ad afferrare Dio stesso. E questo si è messo a girare per gli inferi, abbattendo le porte dell'inferno e liberando i morti.
I defunti di Halloween tornano per ricordarci che vivi e i morti non sono così lontani come alla cultura odierna piacerebbe farci credere: "Quali siete voi, eravamo anche noi; e come siamo noi, domani sarete pure voi", continuano a dirci i trapassati.
Perciò se la festa di Halloween, ben preparata con le sue lanterne di zucca e i suoi fantasmini che bussano alle porte, viene opportunamente evangelizzata, può diventare un potente alleato culturale per parlare e celebrare la sconfitta del diavolo e della morte, ridotti ormai a ombre di se stessi, presi in giro anche dai bambini. In fondo è tutto merito di Colui che ha fornito a tutti la possibilità della Santità, riaprendo le porte del Paradiso con la sua stessa morte e risurrezione. E il ricordo dei morti che vivono tra noi si sdoppi nel cristiano ringraziamento per tanti fratelli Santi in cielo e nella preghiera per tanti fratelli in via di purificazione per giungere alla meta.
Non lasciamo che i piccoli crescano senza prendere "confidenza" con la realtà delle cose ultime. Il paradiso di Ognissanti deve essere visto nella prospettiva del purgatorio e anche dell'inferno. Confidiamo nell'intelligenza dei più piccoli e nella loro capacità di distinguere la fantasia, anche un tantino macabra - come a loro piace -, dalla realtà. E dopo le scorribande notturne, non teniamoli lontani da una visita al cimitero, a trovare i cari morti, quelli veri, di famiglia, che riposano in attesa del risveglio, non per spaventare, ma per gioire insieme a noi per sempre.
 

Defensor Papae


Assisi si avvicina. Giovedì 27 ottobre - data attesa, da taluni con speranza, da altri con timore - è oramai ad un passo. E non sono mancate, non mancano le polemiche. L'accusa è nota: quest'incontro interreligioso è "pericoloso", "scandaloso", "attacca la fede cattolica", "aizza il sincretismo" e così via. Vien dato tanto per scontato che l'evento sia dannoso, che chi osa difendere il Sommo Pontefice nella sua decisione di prendervi parte viene etichettato come "integrista", "papolatra" et similia: in ultima analisi, come un pitocco da compatire, probabilmente.
In realtà, almeno una parte dei difensori di Benedetto XVI vuole semplicemente vivere pienamente la propria fede cattolica, comportandosi da buon fedele. In questo senso, un defensor Papae analizza l'evento e riconosce che esso ha una certa valenza: non è mera espressione di un gusto personale d: el Santo Padre o un suo atto privato, ma è un gesto compiuto consapevolmente come successore dell'apostolo Pietro. Insomma, non è Ratzinger ad andare ad Assisi: è Benedetto XVI. Ne consegue che un defensor prende quest'avvenimento nella giusta considerazione: è atto pontificio, quindi richiede che il fedele abbia per esso il rispetto dovuto. E il rispetto, per il defensor, non comporta solamente una vaga dichiarazione verbale di riguardo nei confronti della Sede Apostolica, ma esige pure di tentare - con le proprie povere capacità - di interpretare positivamente questo gesto. Questo, secondo la morale cattolica, è dovuto - in fondo - ad ogni atto umano: si tratta di evitare il giudizio temerario. In questo senso, conoscendo la figura di Joseph Ratzinger prima del suo avvento al soglio pontificio e pure le sue azioni da Pontefice, si può essere ragionevolmente sicuri che non abbia alcuna intenzione di far cadere l'incontro d'Assisi nei pericoli paventati. Ma, oltre ad evitare il giudizio temerario, nei confronti del Sommo Pontefice è dovuta ancora maggior attenzione e ossequio. Il defensor, quindi, cerca con tutte le sue energie di appoggiare il successore di Pietro e di interpretare positivamente le sue azioni. E' questo un modo d'agire che il defensor sente come profondamente ed intimamente cattolico: cerca di amare il Vicario di Cristo, di rispettarlo, di aiutarlo. Quando parla, lo ascolta: non presume - come taluni, purtroppo, sembrano fare - che il Papa sbagli fino a prova contraria. E lo ascolta perché ha un'alta opinione del Magistero e dei suoi atti: non crede che un Pontefice insegni una volta per secolo e, nel resto del tempo, si limiti ad esporre opinioni personali, chiacchiericci o corbellerie.
Recentemente è stato diffuso il passaggio di una lettera privata del Papa ad un teologo evangelico, in cui il Santo Padre esprime in maniera piuttosto netta il proprio pensiero (nota 1). Alcuni l'hanno interpretato in senso copernicano, come se svelasse chissà quali trame nascoste. In verità, sembra solamente che essa confermi ciò che ragionevolmente si poteva supporre già in precedenza: cioè che il Papa non sia del tutto entusiasta dell'incontro e che, comunque, è pienamente consapevole dei rischi di interpretazioni relativistico-sincretiche dell'evento. Non rinnega ciò che aveva espresso nella Dominus Iesus e ritiene che la sua presenza personale possa essere un modo per tentare di evitare distorsioni. Insomma, erravano coloro che dipingevano Benedetto XVI come una sorta di neomodernista che, dopo essersi nascosto per decenni sotto le vesti di custode dell'ortodossia cattolica, fosse risbucato fuori una volta eletto al soglio petrino; e non era neppure corretta l'interpretazione di coloro che tratteggiavano il fosco quadro d'un Papa prigioniero di correnti opposte, oramai anziano ed incapace di imporsi, sballottato quà e là dalla Curia. Emerge invece un Benedetto XVI che non vuole affatto venir meno al ministero cui il Signore lo ha chiamato: "confirma fratres tuos" (Lc 22,32) e che, anzi, vede Assisi quasi come un'occasione per adempiere a questo compito. Perché questi incontri si sono già svolti in passato e si svolgono tuttora, che il Papa sia presente o meno: e, poiché sono stati mal interpretati in passato, Benedetto ritiene che la sua presenza, catalizzando l'attenzione, possa permettergli di veicolare il corretto messaggio riguardo ad Assisi. Non va nella città del Poverello per partecipare alla creazione di una nuova religione mondiale, blasfemo culto ad un idolo partorito dalla mente umana, ma "allo scopo di fare memoria di quel gesto storico voluto dal mio Predecessore" (nota 2) e per "rinnovare solennemente l’impegno dei credenti di ogni religione a vivere la propria fede religiosa come servizio per la causa della pace." (nota 3)
In conclusione, ribadisco che l'atteggiamento del defensor, oltre a quanto detto sopra, è sostanzialmente quello di richiamare taluni critici ad una questione di principio: date un'opportunità a Benedetto XVI, abbiate fiducia in lui.


(nota 1) Ecco l'originale tedesco: "Ihre Sorge angesichts meiner Teilnahme an dem Assisi-Jubiläum verstehe ich sehr gut. Aber dieses Gedenken mußte auf jeden Fall gefeiert werden, und nach allem Überlegen erschien es mir als das Beste, wenn ich selbst dort hingehe und damit versuchen kann, die Richtung des Ganzen zu bestimmen. Jedenfalls werde ich alles tun, damit eine synkretistische oder relativistische Auslegung des Vorgangs unmöglich wird und klar bleibt, daß ich weiterhin das glaube und bekenne, was ich als Schreiben Dominus Jesus der Kirche in Erinnerung gerufen hatte." (fonte: http://www.katholisches.info/2011/10/04/benedikt-xvi-uber-assisi-3-%E2%80%9Ewerde-alles-tun-damit-eine-synkretistische-oder-relativistische-auslegung-unmoglich-wird%E2%80%9C-%E2%80%9Ehab-vertrauen%E2%80%9C/)

(nota 2) Cfr. Angelus del 1° gennaio 2011 (http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/angelus/2011/documents/hf_ben-xvi_ang_20110101_world-day-peace_it.html)

(nota 3) Ibidem.

La corsa alla Cattedra marciana: un complesso retroscena


di Marco Tosatti (per Vatican Insider) 
Nel marzo 2012 termina il quinquennio di presidenza della Cei del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova; e tutto lascia prevedere che ci sarà una riconferma.
Ma le manovre che si stanno svolgendo per la sostituzione di Angelo Scola a Venezia, nella loro silenziosa determinazione, fanno intuire che forse non è solo in gioco la scelta del patriarca e arcivescovo di una diocesi piccola, ma estremamente prestigiosa; e che ciò che accade in laguna può rientrare in un disegno più ampio, che ha la Circonvallazione Aurelia, sede della Conferenza Episcopale, come ultimo traguardo.
Sul fronte delle possibilità che si aprono a Benedetto XVI si è aggiunto adesso un nome nuovo, oltre a quelli già emersi. Dopo mons. Paglia, (Terni), monsignor Francesco Moraglia (La Spezia) e monsignor Aldo Giordano, il “candidato nascosto” del Segretario di Stato, alcuni porporati italiani pensano di far ricorso, in seconda battuta, a un presule veneto: Andrea Bruno Mazzocato, come segnalato da Vatican Insider, arcivescovo di Udine nato a San Trovaso di Preganziol il 1° settembre 1948, seminarista a Treviso, ex docente di Teologia Dogmatica presso lo Studio Teologico del Seminario di Treviso.
A sfavore gioca il fatto che la sua nomina a Udine è relativamente recente (circa un anno e mezzo) e che il Papa non ama che i presuli cambino diocesi.
Prima che avvenga la nomina del presidente Cei si avrà, probabilmente a febbraio il Concistoro per la creazione di nuovi cardinali. E presumibilmente anche il titolare di Venezia avrà la sua berretta. Ora come ora, se Benedetto XVI continua a volere che presidente dei vescovi sia un cardinale, e continua a non volere, a differenza di Giovanni Paolo II, il Vicario per la città di Roma, eliminando così Agostino Vallini dalla rosa dei possibili candidati, Bagnasco non dovrebbe avere problemi.
Il cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, è troppo vicino al limite di età dei 75 anni, a dispetto della grande stima di cui lo circonda il Papa, per poter essere candidato; e lo stesso vale per Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo. Crescenzio Sepe è molto popolare, e attivo; ma lo esclude dalla possibilità – attuale – di una carica del genere l’inchiesta della magistratura, ancora aperta. Milano non è compatibile con la presidenza della Cei: sarebbe come avere un secondo quasi papa nella penisola. Restano Firenze e Torino. Sia monsignor Betori, guida spirituale della chiesa di Firenze che l’arcivescovo Nosiglia sono considerati ruiniani di stretta osservanza, più il secondo che il primo; e questo, secondo persone ben esperte di cose vaticane e Cei, non li favorisce per assumere questa carica.
In questa situazione, l’arcivescovo di Genova non dovrebbe avere problemi. Almeno per il momento. Ma bisogna tenere conto di alcune elementi. Il primo: il contrasto fra presidenza Cei e Segreteria di Stato, anche se in una certa misura fisiologico, pare che stia assumendo livelli notevoli. L’assemblea di Todi, aperta da Bagnasco, sul tema dei cattolici in politica, è stata letta come una chiara e netta risposta alle iniziative prese in questo campo dal Segretario di Stato, Tarcisio Bertone.
In realtà non sembra che né l’una né l’altra “campagna” verso la politica abbia trovato una risposta calorosa da parte dell’Appartamento pontificio. Benedetto XVI non si appassiona al tema.
Ma ferma restando la mancanza di candidature alternative a Bagnasco, alla presidenza, è chiaro che l’unico teatro sul quale è possibile giocare è Venezia. Se il Segretario di Stato riuscisse a far avanzare sulla laguna una sua pedina, sarebbe forse possibile, non subito, ma nel giro di un anno o due “chiamare” Bagnasco a un grande incarico in Curia e realizzare il sogno di ogni Segretario di Stato: un presidente Cei in sintonia con la terza Loggia vaticana. E questo spiega allora perché ha preso forma l’ipotesi di una candidatura certamente eccezionale come quella di monsignor Aldo Giordano, e perché si vorrebbe farla giungere in porto bypassando le procedure normali, cioè consultazioni di vescovi e cardinali e la “Plenaria” della Congregazione per i Vescovi, dagli esiti imprevedibili. O forse, fin troppo prevedibili.

Riecheggiando il mandato di Gesù risorto



«La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 2).

Questo obiettivo viene continuamente ravvivato dalla celebrazione della liturgia, specialmente dell’Eucaristia, che si conclude sempre riecheggiando il mandato di Gesù risorto agli Apostoli: “Andate…” (Mt 28,19). La liturgia è sempre una chiamata ‘dal mondo’ e un nuovo invio ‘nel mondo’ per testimoniare ciò che si è sperimentato: la potenza salvifica della Parola di Dio, la potenza salvifica del Mistero Pasquale di Cristo. Tutti coloro che hanno incontrato il Signore risorto hanno sentito il bisogno di darne l’annuncio ad altri, come fecero i due discepoli di Emmaus. Essi, dopo aver riconosciuto il Signore nello spezzare il pane, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici» e riferirono ciò che era accaduto loro lungo la strada (Lc 24,33-34). Il Papa Giovanni Paolo II esortava ad essere “vigili e pronti a riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annunzio: “Abbiamo visto il Signore!”» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 59).

BENEDICTUS PP. XVI

Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 

© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana

Sedie, pedane, statue... e Vaticano II



La risposta di Tornielli all'articolo di Aldo Maria Valli.
di Andrea Tornielli
Sul sito VinoNuovo da una settimana potete leggere una riflessione del vaticanista del Tg1, Aldo Maria Valli, dedicata all’uso della pedana mobile da parte di Benedetto XVI. Come sapete, domenica scorsa per la prima volta Papa Ratzinger ha fatto il suo ingresso in San Pietro usando la pedana mobile utilizzata negli ultimi anni da Giovanni Paolo II. Nell’annunciare questa novità, padre Federico Lombardi ha parlato di un aiuto per non far affaticare il Papa. Lombardi ha aggiunto che così il Papa è anche più protetto. Mentre nelle ultime ore il cardinale Tarcisio Bertone è tornato sull’argomento affermando che il Papa sta benissimo e che la pedana serve a farlo vedere meglio.
Trovo azzeccatissime e condivisibili le prime righe di Valli. E trovo errato dal punto di vista della comunicazione affermare che il Papa adotta la pedana mobile perché così è più visibile dai fedeli e più protetto: ci si potrebbe chiedere infatti perché i suoi collaboratori ci abbiano messo sei anni ad arrivarci… Sarebbe stato più corretto dire semplicemente che Benedetto XVI ha qualche problema di deambulazione nei tragitti lunghi e dunque in piazza San Pietro arriva nei pressi dell’altare in papamobile, mentre in basilica è stata riesumata la pedana di Wojtyla.
Quella che ho trovato del tutto sopra le righe e immotivata è la seconda parte dell’articolo di Valli. Leggiamo: “Il papa trasportato sulla pedana mobile e spinto dai sediari pontifici sembra una statua portata in giro per essere mostrata alla folla. C’è qualcosa di idolatrico, di papolatrico, in quell’uomo issato sul carrelletto“.
Aldo Maria Valli inoltre scrive: “Se davvero, come dice il Vaticano, il papa sta bene, farlo trasportare da qualcuno è un gesto che stona e che ha una valenza profondamente anti-conciliare. Ha il gusto di un ritorno al papa re, al sovrano che domina sulla folla e che si distacca dal resto dell’umanità“.
E conclude: “Giovanni Paolo II, alla fine della sua vita, quando si lasciava trasportare era l’icona della sofferenza e al tempo stesso del coraggio. Benedetto XVI, sorridente e apparentemente integro, con tanto di pastorale in mano, assomiglia invece a una divinità pagana, alla quale occorre rendere omaggio“.
Ora, va bene tirare in ballo sempre e comunque il Concilio, ma questa volta, a mio avviso, l’amico Aldo Maria ha esagerato. Capisco che qualcuno possa storgere il naso (e magari richiamarsi al Concilio) nel vedere come la decisione di liberalizzare la messa antica sia stata accompagnata da esagerazioni che nulla hanno a che vedere con la liturgia – ad esempio cardinali che si compiacciono nel farsi fotografare in abitazioni private mentre indossano improbabili cappamagne nuove di zecca, fatte confezionare con tanto di coda lunga 12 metri, in barba al taglio sancito da Pio XII – ma nel caso della pedana mobile, il Vaticano II che c’azzecca?
Vale la pena di ricordare che il Papa che volle e inaugurò il Concilio (Giovanni XXIII) usò sempre la sedia gestatoria con tanto di flabelli. Il Papa che lo concluse (Paolo VI) usò la sedia gestatoria per tutto il suo pontificato, anche dopo aver mandato in soffitta la corte pontificia, i flabelli, la guardia nobile. E nessuno ebbe mai nulla da ridire. La sedia gestatoria fu usata anche dall’umile Giovanni Paolo I. Era un modo per essere visibile a tutti, anche a chi non aveva la fortuna di essere nelle prime file…
Ora, la pedana mobile non è la sedia gestatoria. Non si capisce perché il Papa, evidentemente costretto a usarla, diventi una “statua pagana” (cosa che nessuno si è mai sognato di dire a Giovanni Paolo II). Così come non si capisce, sinceramente, che cosa c’entri il Concilio. Se lo si fa entrare anche nel caso della pedana mobile, che cosa vieta di invocarlo anche per una miriade di altre circostanze? L’inginocchiatoio è contro il Concilio? E il lumino elettrico è conciliare oppure no? Il candelabro a sette braccia è sincretistico? Le icone orientali in una chiesa latina sono in accordo con il decreto Unitatis redintegratio? Il fatto che a Milano certi vicari episcopali, pur non essendo vescovi, siano attaccatissimi all’uso della mitria e della ferula (che termina con un uovo sormontato da una piccola croce, che mia figlia ribattezzò il pastorale con l’ovetto Kinder), è conciliare o anticonciliare? E come dovrebbe rispondere un convinto tradizionalista al vigile urbano che mettendogli la multa gli chiede: “Concilia?”…
Insomma, bene ha fatto Valli a sottolineare la mancanza di trasparenza nell’affermare che la pedana mobile veniva riesumata per motivi diversi da quelli reali e sotto gli occhi di tutti. Ma per favore, non tiriamo in ballo anche qui il Vaticano II! E quanto all’esibizione di statue pagane da venerare, basta conoscere anche soltanto un po’ Joseph Ratzinger, per sapere quanto sia umile e cosciente dei suoi limiti (illuminante a questi riguardo è il bellissimo libro intervista con Peter Seewald).

L'opera d'arte "totale"

Gli organi e le cantorie battenti della Basilica di Santa Giustina in Padova
Raramente nella storia delle due arti, musica e architettura si fusero con tanta felicità quanto nella pratica policorale del Cinquecento veneziano, la prassi di spezzare il discorso musicale distribuendolo tra gruppi musicali -corali, solistici o strumentali che fossero- acusticamente distanti. Vorremmo scomodare un termine wagneriano, Gesamtkunstwerk, ossia "opera d’arte totale", per descrivere come in questa pratica l’immersione della musica nello spazio architettonico converse verso un tutt’uno superiore alla somma dei singoli componenti. La composizione in cori battenti trasse inizio e giustificazione dalla grandiosa architettura cui era commisurata; allo stesso tempo valorizzava, rendeva acusticamente apprezzabile l’ambiente per il quale era concepita. La risposta dei cori è un concretizzarsi dell’acustica delle ampie chiese, con i suoi lunghi riverberi. Avvolgere il fedele in una sacralità fatta di spazio e di ambiente sonoro, entrambi creati dagli uomini, ma entrambi superiori alle capacità percettive del singolo: questa è "l’opera d’arte totale" del Rinascimento.



Psalmus CXXVI


Nisi Dominus aedificaverit domum, in vanum laboraverunt qui aedificant eam.
Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam.
Vanum est vobis ante lucem surgere; surgite postquam sederitis, qui manducatis panem doloris
Cum dederit dilectis suis somnum; ecce hereditas Domini, filii: merces fructus ventris.
Sicut sagittae in manu potentis, ita filii excussorum.
Beatus vir qui implevit desiderium suum ex ipsis; non confundetur cum loquetur inimicis suis in porta.
Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto.
Sicut erat in principio et nunc et semper,
et in saecula saeculorum.
Amen.
Salmo 126

Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori.
Se il Signore non custodisce la città, invano veglia il custode.
Invano vi alzate di buon mattino, tardi andate a riposare e mangiate pane di sudore:
il Signore ne darà ai suoi amici nel sonno.
Ecco, dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo.
Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza.
Beato l'uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare
alla porta con i propri nemici.
Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre, nei secoli dei secoli.
Amen.

immagine Flickr
testo de Associazione Festival Galuppi

La corsa alla Cattedra marciana: Tornielli delinea lo schieramento



Dopo i nomi di Tosatti, la chiara lista di Tornielli.

di Andrea Tornielli (per Vatican Insider)
Si infittiscono le voci sui possibili candidati per la successione del cardinale Angelo Scola, che lo scorso giugno è stato nominato arcivescovo di Milano. Tra i nomi che sembrano emergere c’è quello di Aldo Giordano, 57 anni, rappresentante della Santa Sede a Strasburgo, vicino al movimento dei Focolari. Giordano era stato già inserito nelle terne preparate sia per Torino che per Milano e non è un mistero che a portare avanti la sua candidatura sia il Segretario di Stato Tarcisio Bertone.
Un altro nome forte è quello dell’attuale vescovo di La Spezia, Francesco Moraglia, 58 anni, presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione “Comunicazione e Cultura” della Cei, da cui dipende anche TV2000, stimato dal cardinale Angelo Bagnasco e dallo stesso Bertone che lo conobbe quando era arcivescovo di Genova. Più defilate appaiono invece le candidature del vescovo di Terni Vincenzo Paglia, 66 anni, già assistente ecclesiastico della Comunità di Sant’Egidio; e quella dell’arcivescovo di Chieti Bruno Forte, 62 anni, teologo. Due infine i possibili «papabili» tra i vescovi del Triveneto: Andrea Bruno Mazzoccato, arcivescovo di Udine, e Gianpaolo Crepaldi, vescovo di Trieste.
Per la «provvista» di Venezia non si sarebbe ancora messo in moto il processo, vale a dire la richiesta di pareri richiesti dalla nunziatura in Italia ai vescovi della regione, ai cardinali italiani e a sacerdoti e laici della città lagunare, chiamati a esprimersi sull’identikit del nuovo patriarca e sulle necessità della diocesi, indicando anche possibili candidature.
La nomina di Scola a Milano è stata resa nota lo scorso 28 giugno. L’estate è passata senza che nulla si muovesse dalla nunziatura di via Po, anche perché il suo titolare, l’arcivescovo Giuseppe Bertello, era in attesa di essere designato quale nuovo presidente del Governatorato al posto dell’uscente cardinale Giovanni Lajolo. Una nomina che ha tardato a venire a motivo delle difficoltà legate alla sistemazione per il segretario dello stesso Governatorato, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, appena nominato nunzio apostolico a Washington.
Ma neanche alla ripresa di settembre s’è mosso qualcosa. Il motivo è legato certamente alla mancanza del nunzio – dal 1° ottobre Bertello è insediato al Governatorato e la nunziatura presso l’Italia attende il nuovo titolare, Adriano Bernardini, la cui nomina sarà ufficializzata nei prossimi giorni – ma non è escluso che abbiano potuto giocare anche altri fattori. Sembra infatti che vi sia l’intenzione di non far passare la nomina del nuovo patriarca di Venezia – sede molto piccola, ma prestigiosa, il cui titolare viene sempre inserito nel collegio cardinalizio – attraverso i consueti canali, ma di procedere «per direttissima» o con una mini-plenaria tutta italiana, come altre volte avvenuto per importanti sedi cardinalizie.
Benedetto XVI ha voluto, nel caso di Milano, diocesi tra le più grandi e importanti del mondo, procedere seguendo l’iter tradizionale, senza che fosse saltato alcun passaggio. Ha voluto che si promuovesse un’accurata inchiesta sul campo a Milano, che i cardinali e vescovi membri della Congregazione dei vescovi discutessero le candidature e i pro e i contro presenti nel dossier, e alla fine ha voluto sulla scrivania papale l’esito di questo lavoro prima di decidere.
La Chiesa del Triveneto, nonostante la crisi e la secolarizzazione, è ancora tra le più importanti e fiorenti d’Italia. Offre un numero elevato di missionari e di sacerdoti impiegati nel servizio diplomatico. È ancora una realtà radicata e ben presente nel tessuto sociale. È una Chiesa di antichissime tradizioni, che già ha vissuto come una ferita l’inusuale trasferimento del suo patriarca. Senza contare che proprio Venezia, nell’ultimo secolo, ha dato ben tre Pontefici alla cristianità (il primo dei quali, Pio X, già santo; il secondo, Giovanni XXIII, è beato; mentre del terzo, Giovanni Paolo I è in corso il processo di beatificazione.
Sono in molti a sperare che venga applicato il «metodo Milano» anche a Venezia. Non sarebbe meglio consultare le Chiese locali e far esprimere i cardinali e vescovi membri della Congregazione? A meno che il Papa non abbia già in mente un candidato da nominare, l’iter tradizionale non sarebbe preferibile alle «direttissime»? Eviterebbe, tra l’altro, che la designazione di nuovi pastori per diocesi importanti finisca per apparire, all’esterno, come un “risiko” del potere.

Il 12 settembre 2009, celebrando una messa per le ordinazioni di nuovi vescovi in San Pietro, Papa Ratzinger ebbe a dire: «La Chiesa non è la Chiesa nostra, ma la sua Chiesa, la Chiesa di Dio… Non leghiamo gli uomini a noi non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi. Conduciamo gli uomini verso Gesù Cristo e così verso il Dio vivente». «Sappiamo come le cose nella società civile e, non di rado, anche nella Chiesa – aveva aggiunto il Pontefice – soffrono per il fatto che molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità, lavorano per se stessi e non per la comunità, per il bene comune». Parole quanto mai attuali anche a distanza di due anni.

Il Papa che non cammina



Ovvero "vogliamo ma non possiamo"...

di Aldo Maria Valli (per vinonuovo.it)
Due parole sull'uso della pedana mobile (il "carrelletto", come lo chiama una mia amica romana) da parte di Benedetto XVI domenica scorsa.
Perché questa scelta? Il papa, ha detto il portavoce padre Lombardi, sta bene e non ha problemi nel camminare, vogliamo soltanto evitargli alcune fatiche.
Ma, domando, se davvero sta bene, come può essere per lui un compito improbo coprire pochi metri all'inizio e alla fine di una celebrazione? Se si è deciso di usare la pedana mobile vuol dire che il papa non sta proprio bene. Ma allora perché non dire semplicemente che il papa fa fatica a camminare? Perché trincerarsi sempre dietro questa ideologia del segreto che non fa altro che alimentare voci, creare sconcerto e diffondere interpretazioni distorte? Perché non ricorrere alla trasparenza?
In secondo luogo c'è un problema di contenuto. Il papa trasportato sulla pedana mobile e spinto dai sediari pontifici sembra una statua portata in giro per essere mostrata alla folla. C'è qualcosa di idolatrico, di papolatrico, in quell'uomo issato sul "carrelletto". Se quella di papa è davvero una funzione di servizio, perché smentirla così platealmente e proprio in occasione delle celebrazioni più solenni? Il pastore è uno che cammina alla testa e accanto al suo gregge. Il pastore non si fa trasportare su una lettiga, come un principe o un faraone. L'abolizione della sedia gestatoria ha un significato.
Se davvero, come dice il Vaticano, il papa sta bene, farlo trasportare da qualcuno è un gesto che stona e che ha una valenza profondamente anti-conciliare. Ha il gusto di un ritorno al papa re, al sovrano che domina sulla folla e che si distacca dal resto dell'umanità.
Si dirà: ma già Giovanni Paolo II usò la pedana mobile e nessuno disse niente. È vero, ma papa Wojtyla stava male, non riusciva più a camminare, e quel trasportarlo apparve a tutti un aiuto necessario per un pastore che, alla fine del suo mandato, non voleva comunque rinunciare a stare tra la gente. L'immagine di Wojtyla sulla pedana non aveva niente di papolatrico perché le condizioni fisiche di Giovanni Paolo II legittimavano l'uso di quello strumento.
Infine un dettaglio. A bordo della pedana Benedetto XVI ha comunque impugnato il pastorale. Mentre Giovanni Paolo II doveva farne a meno, perché era costretto a reggersi al corrimano, papa Ratzinger si è lasciato trasportare reggendosi con una mano e impiegando l'altra per impugnare il pastorale. Il che ha qualcosa di contraddittorio. Il pastorale è un bastone che si chiama così perché serve al pastore per aiutarsi a camminare. Ma se il pastore si fa trasportare, a che gli serve il pastorale?
Benedetto XVI sulla pedana mobile, spinto dai sediari, sembrava una statua, e le statue non camminano accanto alla gente. Le statue si fanno ammirare. Una statua che sta su un piedistallo può essere bellissima, ma è inevitabilmente lontana dalla gente.
Giovanni Paolo II, alla fine della sua vita, quando si lasciava trasportare era l'icona della sofferenza e al tempo stesso del coraggio. Benedetto XVI, sorridente e apparentemente integro, con tanto di pastorale in mano, assomiglia invece a una divinità pagana, alla quale occorre rendere omaggio.
Tanto varrebbe, a questo punto, ripristinare la sedia gestatoria, magari con il contorno di flabelli e guardie palatine in alta uniforme. Che ne pensate?




immagini da g.immage, daylife

Veneti episcopi: Federico Cornaro



Federico Baldissera Bartolomeo Cardinal Cornaro già Patriarca di Venezia, Vescovo di Padova, Vescovo di Vicenza.

Luci e ombre: un anno con Palombella


Ha riesumato Palestrina e le trombe d'argento, quando passa il Papa la Sistina s'inchina, ma il coro degli scontenti è unanime: così, la musica in Vaticano non va. Eppure...

di MARCELLO FILOTEI (per l'Osservatore Romano)


Coniugare una tradizione unica al mondo con la vocalità moderna. Questa la sfida principale che deve affrontare la Cappella Musicale Pontificia "Sistina", secondo il maestro Massimo Palombella, che da un anno la dirige. "Le acquisizioni tecniche del Novecento devono essere conosciute da chi fa questo lavoro, occorre inserire gradualmente il repertorio contemporaneo. La storia della musica non è finita e non potrà mai finire. Non si può ignorare la scuola francese del Novecento con tutto quello che ci ha consegnato, da Messiaen a Ravel, da Faurè a Poulenc o Duruflé".

Da dove siete partiti per realizzare questo progetto?

Per prima cosa abbiamo intensificato le prove, ora si prova quattro volte a settimana. Abbiamo un punto di partenza eccellente. I cantori sono venti, assunti a tempo indeterminato dalla Santa Sede, di livello artistico elevatissimo. Tra questi alcuni sono stati bambini cantori, anche perché quando si inserisce un elemento nuovo a parità di qualità si preferisce chi ha già acquisito le caratteristiche principali del modo di cantare della Cappella Sistina. Su queste basi occorre costruire un futuro che metta assieme una tradizione di cantabilità e declamazione del testo, che caratterizza la Sistina, con ciò che la vocalità del Novecento ci ha positivamente consegnato.

Cioè?

La precisione dell'intonazione, in particolare, favorita da ciò che di scientifico oggi sappiamo, per esempio sull'intonazione delle terze e delle quinte. L'attenzione all'articolazione interna del testo e alla sua declamazione, specialmente sul modo di affrontare vocali e consonanti. La chiarezza del fraseggio al quale attenersi in modo assoluto e scrupoloso sia per rendere l'idea della frase musicale, sia per la corretta declamazione. Per ultimo il mantenimento dell'intonazione durante l'articolazione del testo. Per fare questo si può fare riferimento anche a ciò che nel mondo sta avvenendo riguardo alla vocalità. Occorre uscire da un'implicita autoreferenzialità della Cappella e guardarsi intorno. Gli inglesi, come in altri termini i tedeschi e anche la tarda scuola francese, hanno da insegnarci molto circa la precisione dell'intonazione, dell'articolazione del testo e del fraseggio. Possiamo non condividere il loro modo di cantare, che di fatto non appartiene alla tradizione "latina" di canto, ma va riconosciuto che quegli atteggiamenti sono coerenti nella loro scelta estetica e questo, da musicisti, non possiamo che lodarlo. Rischiamo altrimenti di fare della nostra comprensione estetica l'unica possibile. I cd di Palestrina registrati dal Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia diretto da Roberto Gabbiani, ad esempio, realizzano una interpretazione che possiamo non condividere per diversi motivi, ma bisogna onestamente riconoscere una disarmante coerenza interna, una maniacale ricerca della precisione dell'intonazione. Occorre in sostanza avere l'onestà di riconoscere una precisa "scelta estetica" che non può non essere apprezzata e assunta come modello metodologico (la stessa cosa si può dire per Westminster Abbey, Tallis Scholars e altri gruppi). In sostanza senza un sano confronto non esiste una vera crescita culturale-artistica e si corre il rischio di erigere a modello segmenti di storia che possono invece rappresentare - considerati in un'ampia arcata storica e in una doverosa comprensione sinottica - momenti di decadenza.

Quindi metodo scientifico e tradizione esecutiva antica?

La Sistina deve avere un vastissimo repertorio che comprenda quello che ha caratterizzato la sua storia. In concerto, in particolare, deve eseguire quello che nessuna altra cappella musicale può vantare. Noi possiamo cantare opere che Palestrina ha scritto per noi. Se andiamo a fare un concerto non possiamo proporre quello che proporrebbe un coro di parrocchia, ma dobbiamo programmare brani polifonici da cinque voci in su. Questo repertorio antico deve essere l'"ordinario" della Cappella, deve essere frequentato continuamente e deve diventare un corpus importante. Per questo nell'agosto scorso abbiamo assemblato un libro di studio che contiene mottetti, offertori e composizioni latine di Palestrina, in poche parole l'identità della Cappella. E questo repertorio va anche utilizzato continuamente nelle celebrazioni. In particolare gli offertori.

Quali in particolare?

Proprio quelli di Palestrina, l'unico compositore che ha musicato tutti gli offertori dell'anno liturgico. Per questo noi, a ogni celebrazione papale, cantiamo un offertorio palestriniano. E lo dobbiamo fare con le caratteristiche che ci contraddistinguono da sempre: canto "in voce", mai in falsetto, che serve a riempire i grandi spazi nei quali siamo chiamati a cantare, e perfetta declamazione del testo, per garantire la comprensibilità della Parola. È un dovere, se non lo facciamo noi non lo fa nessuno.

E poi?

A questo va altrettanto doverosamente coniugata un'apertura assoluta al repertorio internazionale. In Inghiltera, negli Stati Uniti, in Francia, in Germania c'è una produzione di musica liturgica contemporanea importante. Queste cose vanno gradualmente metabolizzate, proprio perché la Sistina sia un punto di riferimento internazionale, che esprima nel suo operare la cattolicità della Chiesa. È in stampa a questo scopo un libro di studio nel quale saranno inseriti brani di repertorio che vanno dall'inizio del Novecento a oggi. Non so ancora come li collocheremo nelle celebrazioni o in concerto, ma sono certo che faccia bene ai cantori frequentare autori come Duruflé, Schnitzel, Fauré, Perosi, Refice, Molfino, Bettinelli, Bianchi, Poulenc, Dupré, Gorecki, Lauridsen, Stanford e molti altri. Dobbiamo farlo per evitare che la Cappella Musicale Pontificia diventi un pezzo da museo.

(©L'Osservatore Romano 15 ottobre 2011)
immagine da Orbis Catholicus

La corsa alla Cattedra marciana: Monsignor Giordano Patriarca?



L'ennesimo nome da parte di Tosatti... gioco di vaticanista o nomina in alto mare?

di Marco Tosatti (per Vatican Insider)

Il giallo della sostituzione di Angelo Scola a Venezia si arricchisce di un nuovo capitolo: quello del “candidato nascosto”, cioè di un ecclesiastico, non ancora vescovo, che qualcuno vorrebbe lanciare come nuovo patriarca della diocesi lagunare. E’ monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente presso il Consiglio d’Europa, già Segretario generale del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, (CCEE), l’organismo che collega e coordina le varie organizzazioni di presuli. E’ piemontese; nato a Cuneo il 20 agosto 1954, è stato ordinato sacerdote il 28 luglio 1979 nella diocesi della "provincia granda".

Ha studiato teologia a Fossano In seguito è stato insegnante di filosofia morale presso la sessione di Fossano della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e ha fatto una specializzazione in filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Dal 1982 al 1995 è stato insegnante di Filosofia morale presso lo Studentato teologico interdiocesano di Fossano; insegnante di Filosofa nel liceo classico del Seminario di Cuneo; insegnante di Teologia per i laici e vicario parrocchiale nella Parrocchia San Pio X a Cuneo. E’ stato nominato Segretario generale del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa (CCEE) il 15 maggio 1995 per un primo mandato di tre anni, e rieletto il 4 ottobre 1998 e il 3 ottobre 2003 per altri due mandati di cinque anni. Dal 1° settembre 2008 è osservatore permanente presso il Consiglio d’Europa.

Nella girandola di nomi e candidature che sono seguite alla partenza di Angelo Scola per Milano non era chiaro quale fosse l’idea del Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Sembra, secondo indiscrezioni di ottima fonte, che in realtà sia proprio monsignor Aldo Giordano il candidato del braccio destro del Papa. Fra l’altro Giordano ha molte buone amicizie nel movimento dei Focolarini; e certamente, dopo la nomina di Scola (vicino a Cl) a Milano, e il desiderio di Sant’Egidio, che vorrebbe a Venezia il suo consigliere spirituale, il vescovo di Terni, monsignor Vincenzo Paglia, anche i figli spirituali di Chiara Lubich sono in diritto di avere in Italia un cardinale vicino alla loro sensibilità.

Era stato lo stesso cardinale Bertone a esprimersi a favore di Monsignor Giordano nel corso di due riunioni importanti della Congregazione per i vescovi: quelle in cui si era deciso il successore del cardinale Poletto a Torino (ci è andato il “ruiniano” Nosiglia, da Vicenza) e il successore di Tettamanzi a Milano, conclusa con il voto favorevole su Scola. Ma affinché questo desiderio del braccio destro di Benedetto XVI si realizzi è necessario che vengano superate non poche difficoltà, alcune delle quali di grande rilievo.
La via ordinaria per la nomina di un vescovo passa attraverso la Congregazione per i vescovi. Il nunzio, o un incaricato d’affari (come è nel caso della Nunziatura in Italia, resa temporaneamente vacante dalla nomina di mons. Bertello in Curia) manda una lettera ai vescovi della regione interessata e ai cardinali italiani, residenziali e di Curia, per chiedere il loro parere e suggerimenti. Questo non è ancora stato fatto. Dopodiché l’assemblea “plenaria” della Congregazione si riunisce, discute le candidature presentate dal membro “ponente” e vota. Il risultato viene presentato al Papa, che decide in merito.
Ma pare che questa procedura potrebbe rivelarsi fatale per il candidato di cui parliamo. Infatti ci sarebbe certamente all’interno della “Plenaria” chi metterebbe in luce una serie di obiezioni. La prima: che a Venezia, sede patriarcale, cardinalizia (e che ha dato tre Papi nell’ultimo secolo) non è stato inviato nessuno che non fosse già vescovo. Per la tradizione ecclesiastica il “salto” da semplice sacerdote a Patriarca potrebbe sembrare troppo ampio.

Inoltre Venezia è una diocesi particolare; in cui è necessario qualcuno che possa continuare il lavoro culturale di grande respiro intrapreso da Scola (con la Fondazione Marcianum, soprattutto) ma che abbia un’esperienza pastorale profonda, di rapporto con le parrocchie, che manca nel curriculum per quanto brillante del candidato bertoniano.  Inoltre due dei vescovi veneti già provengono dalla diplomazia vaticana; aggiungere un terzo, anche se non è nunzio, potrebbe suscitare reazioni negative. E inoltre – aggiungono alcuni critici – un documento sull’ecumenismo preparato dalla Ccee alcuni anni fa non era stato giudicato positivamente dalla Congregazione per la Dottrina della fede, di cui era Prefetto l’attuale Benedetto XVI.
Insomma, portare questa candidatura alla plenaria comporterebbe grossi rischi. E per evitare un quasi sicuro affossamento, c’è chi pensa ad aggirare la Congregazione con un “blitz” di Curia. Cioè convocare il prefetto del Vescovi, Ouellet, il segretario e il sottosegretario del dicastero, insieme al “ministro degli Esteri” vaticano, Mamberti, al sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Becciu e all’assessore, Peter Brian Wells, nell’ufficio del Segretario di Stato e seduta stante preparare una proposta da sottoporre al Papa. Ma sarebbe un precedente certamente singolare; tanto più per una sede episcopale importante come Venezia. E non è affatto sicuro che Benedetto XVI approverebbe una procedura così sbrigativa.

Rinascenza policroma



Padova, Chiesa dei Santi Filippo e Giacomo "gli Eremitani", edicola.


Un Anno della fede: il Motu proprio di Papa Benedetto

 
 
Lettera Apostolica in forma di Motu proprio
Porta fidei
del Sommo Pontefice
Benedetto XVI
con la quale si indice l’Anno della fede
1. La "porta della fede" (cfr At 14,27) che introduce alla vita di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre aperta per noi. E’ possibile oltrepassare quella soglia quando la Parola di Dio viene annunciata e il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma. Attraversare quella porta comporta immettersi in un cammino che dura tutta la vita. Esso inizia con il Battesimo (cfr Rm 6, 4), mediante il quale possiamo chiamare Dio con il nome di Padre, e si conclude con il passaggio attraverso la morte alla vita eterna, frutto della risurrezione del Signore Gesù che, con il dono dello Spirito Santo, ha voluto coinvolgere nella sua stessa gloria quanti credono in Lui (cfr Gv 17,22). Professare la fede nella Trinità – Padre, Figlio e Spirito Santo – equivale a credere in un solo Dio che è Amore (cfr 1Gv 4,8): il Padre, che nella pienezza del tempo ha inviato suo Figlio per la nostra salvezza; Gesù Cristo, che nel mistero della sua morte e risurrezione ha redento il mondo; lo Spirito Santo, che conduce la Chiesa attraverso i secoli nell’attesa del ritorno glorioso del Signore.
2. Fin dall’inizio del mio ministero come Successore di Pietro ho ricordato l’esigenza di riscoprire il cammino della fede per mettere in luce con sempre maggiore evidenza la gioia ed il rinnovato entusiasmo dell’incontro con Cristo. Nell’Omelia della santa Messa per l’inizio del pontificato dicevo: "La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza"1. Capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato2. Mentre nel passato era possibile riconoscere un tessuto culturale unitario, largamente accolto nel suo richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essa ispirati, oggi non sembra più essere così in grandi settori della società, a motivo di una profonda crisi di fede che ha toccato molte persone.
3. Non possiamo accettare che il sale diventi insipido e la luce sia tenuta nascosta (cfr Mt 5,13-16). Anche l’uomo di oggi può sentire di nuovo il bisogno di recarsi come la samaritana al pozzo per ascoltare Gesù, che invita a credere in Lui e ad attingere alla sua sorgente, zampillante di acqua viva (cfr Gv 4,14). Dobbiamo ritrovare il gusto di nutrirci della Parola di Dio, trasmessa dalla Chiesa in modo fedele, e del Pane della vita, offerti a sostegno di quanti sono suoi discepoli (cfr Gv 6,51). L’insegnamento di Gesù, infatti, risuona ancora ai nostri giorni con la stessa forza: "Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la via eterna" (Gv 6,27). L’interrogativo posto da quanti lo ascoltavano è lo stesso anche per noi oggi: "Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?" (Gv 6,28). Conosciamo la risposta di Gesù: "Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato" (Gv 6,29). Credere in Gesù Cristo, dunque, è la via per poter giungere in modo definitivo alla salvezza.
4. Alla luce di tutto questo ho deciso di indire un Anno della fede. Esso avrà inizio l’11 ottobre 2012, nel cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, e terminerà nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, il 24 novembre 2013. Nella data dell’11 ottobre 2012, ricorreranno anche i vent’anni dalla pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, testo promulgato dal mio Predecessore, il Beato Papa Giovanni Paolo II3, allo scopo di illustrare a tutti i fedeli la forza e la bellezza della fede. Questo documento, autentico frutto del Concilio Vaticano II, fu auspicato dal Sinodo Straordinario dei Vescovi del 1985 come strumento al servizio della catechesi4 e venne realizzato mediante la collaborazione di tutto l’Episcopato della Chiesa cattolica. E proprio l’Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi è stata da me convocata, nel mese di ottobre del 2012, sul tema de La nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana. Sarà quella un’occasione propizia per introdurre l’intera compagine ecclesiale ad un tempo di particolare riflessione e riscoperta della fede. Non è la prima volta che la Chiesa è chiamata a celebrare un Anno della fede. Il mio venerato Predecessore il Servo di Dio Paolo VI ne indisse uno simile nel 1967, per fare memoria del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo nel diciannovesimo centenario della loro testimonianza suprema. Lo pensò come un momento solenne perché in tutta la Chiesa vi fosse "un'autentica e sincera professione della medesima fede"; egli, inoltre, volle che questa venisse confermata in maniera "individuale e collettiva, libera e cosciente, interiore ed esteriore, umile e franca"5. Pensava che in tal modo la Chiesa intera potesse riprendere "esatta coscienza della sua fede, per ravvivarla, per purificarla, per confermarla, per confessarla"6. I grandi sconvolgimenti che si verificarono in quell’Anno, resero ancora più evidente la necessità di una simile celebrazione. Essa si concluse con la Professione di fede del Popolo di Dio7, per attestare quanto i contenuti essenziali che da secoli costituiscono il patrimonio di tutti i credenti hanno bisogno di essere confermati, compresi e approfonditi in maniera sempre nuova al fine di dare testimonianza coerente in condizioni storiche diverse dal passato.
5. Per alcuni aspetti, il mio venerato Predecessore vide questo Anno come una "conseguenza ed esigenza postconciliare"8, ben cosciente delle gravi difficoltà del tempo, soprattutto riguardo alla professione della vera fede e alla sua retta interpretazione. Ho ritenuto che far iniziare l’Anno della fede in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II possa essere un’occasione propizia per comprendere che i testi lasciati in eredità dai Padri conciliari, secondo le parole del beato Giovanni Paolo II, "non perdono il loro valore né il loro smalto. È necessario che essi vengano letti in maniera appropriata, che vengano conosciuti e assimilati come testi qualificati e normativi del Magistero, all'interno della Tradizione della Chiesa … Sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo che si apre"9. Io pure intendo ribadire con forza quanto ebbi ad affermare a proposito del Concilio pochi mesi dopo la mia elezione a Successore di Pietro: "se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa"10.
6. Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti: con la loro stessa esistenza nel mondo i cristiani sono infatti chiamati a far risplendere la Parola di verità che il Signore Gesù ci ha lasciato. Proprio il Concilio, nella Costituzione dogmatica Lumen gentium, affermava: "Mentre Cristo, «santo, innocente, senza macchia» (Eb 7,26), non conobbe il peccato (cfr 2Cor 5,21) e venne solo allo scopo di espiare i peccati del popolo (cfr Eb 2,17), la Chiesa, che comprende nel suo seno peccatori ed è perciò santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, avanza continuamente per il cammino della penitenza e del rinnovamento. La Chiesa «prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio», annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr 1Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce"11.
L’Anno della fede, in questa prospettiva, è un invito ad un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo. Nel mistero della sua morte e risurrezione, Dio ha rivelato in pienezza l’Amore che salva e chiama gli uomini alla conversione di vita mediante la remissione dei peccati (cfr At 5,31). Per l’apostolo Paolo, questo Amore introduce l’uomo ad una nuova vita: "Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una nuova vita" (Rm 6,4). Grazie alla fede, questa vita nuova plasma tutta l’esistenza umana sulla radicale novità della risurrezione. Nella misura della sua libera disponibilità, i pensieri e gli affetti, la mentalità e il comportamento dell’uomo vengono lentamente purificati e trasformati, in un cammino mai compiutamente terminato in questa vita. La "fede che si rende operosa per mezzo della carità" (Gal 5,6) diventa un nuovo criterio di intelligenza e di azione che cambia tutta la vita dell’uomo (cfr Rm 12,2; Col 3,9-10; Ef 4,20-29; 2Cor 5,17).
7. "Caritas Christi urget nos" (2Cor 5,14): è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad evangelizzare. Egli, oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra (cfr Mt 28,19). Con il suo amore, Gesù Cristo attira a sé gli uomini di ogni generazione: in ogni tempo Egli convoca la Chiesa affidandole l’annuncio del Vangelo, con un mandato che è sempre nuovo. Per questo anche oggi è necessario un più convinto impegno ecclesiale a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede. Nella quotidiana riscoperta del suo amore attinge forza e vigore l’impegno missionario dei credenti che non può mai venire meno. La fede, infatti, cresce quando è vissuta come esperienza di un amore ricevuto e quando viene comunicata come esperienza di grazia e di gioia. Essa rende fecondi, perché allarga il cuore nella speranza e consente di offrire una testimonianza capace di generare: apre, infatti, il cuore e la mente di quanti ascoltano ad accogliere l’invito del Signore di aderire alla sua Parola per diventare suoi discepoli. I credenti, attesta sant’Agostino, "si fortificano credendo"12. Il santo Vescovo di Ippona aveva buone ragioni per esprimersi in questo modo. Come sappiamo, la sua vita fu una ricerca continua della bellezza della fede fino a quando il suo cuore non trovò riposo in Dio13. I suoi numerosi scritti, nei quali vengono spiegate l’importanza del credere e la verità della fede, permangono fino ai nostri giorni come un patrimonio di ricchezza ineguagliabile e consentono ancora a tante persone in ricerca di Dio di trovare il giusto percorso per accedere alla "porta della fede". Solo credendo, quindi, la fede cresce e si rafforza; non c’è altra possibilità per possedere certezza sulla propria vita se non abbandonarsi, in un crescendo continuo, nelle mani di un amore che si sperimenta sempre più grande perché ha la sua origine in Dio.
8. In questa felice ricorrenza, intendo invitare i Confratelli Vescovi di tutto l’orbe perché si uniscano al Successore di Pietro, nel tempo di grazia spirituale che il Signore ci offre, per fare memoria del dono prezioso della fede. Vorremmo celebrare questo Anno in maniera degna e feconda. Dovrà intensificarsi la riflessione sulla fede per aiutare tutti i credenti in Cristo a rendere più consapevole ed a rinvigorire la loro adesione al Vangelo, soprattutto in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo. Avremo l’opportunità di confessare la fede nel Signore Risorto nelle nostre Cattedrali e nelle chiese di tutto il mondo; nelle nostre case e presso le nostre famiglie, perché ognuno senta forte l’esigenza di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sempre. Le comunità religiose come quelle parrocchiali, e tutte le realtà ecclesiali antiche e nuove, troveranno il modo, in questo Anno, per rendere pubblica professione del Credo.
9. Desideriamo che questo Anno susciti in ogni credente l’aspirazione a confessare la fede in pienezza e con rinnovata convinzione, con fiducia e speranza. Sarà un'occasione propizia anche per intensificare la celebrazione della fede nella liturgia, e in particolare nell’Eucaristia, che è "il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e insieme la fonte da cui promana tutta la sua energia"14. Nel contempo, auspichiamo che la testimonianza di vita dei credenti cresca nella sua credibilità. Riscoprire i contenuti della fede professata, celebrata, vissuta e pregata15, e riflettere sullo stesso atto con cui si crede, è un impegno che ogni credente deve fare proprio, soprattutto in questo Anno.
Non a caso, nei primi secoli i cristiani erano tenuti ad imparare a memoria il Credo. Questo serviva loro come preghiera quotidiana per non dimenticare l’impegno assunto con il Battesimo. Con parole dense di significato, lo ricorda sant’Agostino quando, in un’Omelia sulla redditio symboli, la consegna del Credo, dice: "Il simbolo del santo mistero che avete ricevuto tutti insieme e che oggi avete reso uno per uno, sono le parole su cui è costruita con saldezza la fede della madre Chiesa sopra il fondamento stabile che è Cristo Signore … Voi dunque lo avete ricevuto e reso, ma nella mente e nel cuore lo dovete tenere sempre presente, lo dovete ripetere nei vostri letti, ripensarlo nelle piazze e non scordarlo durante i pasti: e anche quando dormite con il corpo, dovete vegliare in esso con il cuore"16.
10. Vorrei, a questo punto, delineare un percorso che aiuti a comprendere in modo più profondo non solo i contenuti della fede, ma insieme a questi anche l’atto con cui decidiamo di affidarci totalmente a Dio, in piena libertà. Esiste, infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui diamo il nostro assenso. L’apostolo Paolo permette di entrare all’interno di questa realtà quando scrive: "Con il cuore … si crede … e con la bocca si fa la professione di fede" (Rm 10,10). Il cuore indica che il primo atto con cui si viene alla fede è dono di Dio e azione della grazia che agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo.
L’esempio di Lidia è quanto mai eloquente in proposito. Racconta san Luca che Paolo, mentre si trovava a Filippi, andò di sabato per annunciare il Vangelo ad alcune donne; tra esse vi era Lidia e il "Signore le aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo" (At 16,14). Il senso racchiuso nell’espressione è importante. San Luca insegna che la conoscenza dei contenuti da credere non è sufficiente se poi il cuore, autentico sacrario della persona, non è aperto dalla grazia che consente di avere occhi per guardare in profondità e comprendere che quanto è stato annunciato è la Parola di Dio.
Professare con la bocca, a sua volta, indica che la fede implica una testimonianza ed un impegno pubblici. Il cristiano non può mai pensare che credere sia un fatto privato. La fede è decidere di stare con il Signore per vivere con Lui. E questo "stare con Lui" introduce alla comprensione delle ragioni per cui si crede. La fede, proprio perché è atto della libertà, esige anche la responsabilità sociale di ciò che si crede. La Chiesa nel giorno di Pentecoste mostra con tutta evidenza questa dimensione pubblica del credere e dell’annunciare senza timore la propria fede ad ogni persona. È il dono dello Spirito Santo che abilita alla missione e fortifica la nostra testimonianza, rendendola franca e coraggiosa.
La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della Comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il Catechismo della Chiesa Cattolica: "«Io credo»; è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi crediamo» è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. «Io credo»: è anche la Chiesa nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire «Io credo», «Noi crediamo»"17.
Come si può osservare, la conoscenza dei contenuti di fede è essenziale per dare il proprio assenso, cioè per aderire pienamente con l’intelligenza e la volontà a quanto viene proposto dalla Chiesa. La conoscenza della fede introduce alla totalità del mistero salvifico rivelato da Dio. L’assenso che viene prestato implica quindi che, quando si crede, si accetta liberamente tutto il mistero della fede, perché garante della sua verità è Dio stesso che si rivela e permette di conoscere il suo mistero di amore18.
D’altra parte, non possiamo dimenticare che nel nostro contesto culturale tante persone, pur non riconoscendo in sé il dono della fede, sono comunque in una sincera ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo. Questa ricerca è un autentico "preambolo" alla fede, perché muove le persone sulla strada che conduce al mistero di Dio. La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di "ciò che vale e permane sempre"19. Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro20. Proprio a questo incontro la fede ci invita e ci apre in pienezza.
11. Per accedere a una conoscenza sistematica dei contenuti della fede, tutti possono trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica un sussidio prezioso ed indispensabile. Esso costituisce uno dei frutti più importanti del Concilio Vaticano II. Nella Costituzione Apostolica Fidei depositum, non a caso firmata nella ricorrenza del trentesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, il Beato Giovanni Paolo II scriveva: "Questo Catechismo apporterà un contributo molto importante a quell’opera di rinnovamento dell’intera vita ecclesiale… Io lo riconosco come uno strumento valido e legittimo al servizio della comunione ecclesiale e come una norma sicura per l’insegnamento della fede"21.
E’ proprio in questo orizzonte che l’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede.
Nella sua stessa struttura, il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta lo sviluppo della fede fino a toccare i grandi temi della vita quotidiana. Pagina dopo pagina si scopre che quanto viene presentato non è una teoria, ma l’incontro con una Persona che vive nella Chiesa. Alla professione di fede, infatti, segue la spiegazione della vita sacramentale, nella quale Cristo è presente, operante e continua a costruire la sua Chiesa. Senza la liturgia e i Sacramenti, la professione di fede non avrebbe efficacia, perché mancherebbe della grazia che sostiene la testimonianza dei cristiani. Alla stessa stregua, l’insegnamento del Catechismo sulla vita morale acquista tutto il suo significato se posto in relazione con la fede, la liturgia e la preghiera.
12. In questo Anno, pertanto, il Catechismo della Chiesa Cattolica potrà essere un vero strumento a sostegno della fede, soprattutto per quanti hanno a cuore la formazione dei cristiani, così determinante nel nostro contesto culturale. A tale scopo, ho invitato la Congregazione per la Dottrina della Fede, in accordo con i competenti Dicasteri della Santa Sede, a redigere una Nota, con cui offrire alla Chiesa ed ai credenti alcune indicazioni per vivere quest’Anno della fede nei modi più efficaci ed appropriati, al servizio del credere e dell’evangelizzare.
La fede, infatti, si trova ad essere sottoposta più che nel passato a una serie di interrogativi che provengono da una mutata mentalità che, particolarmente oggi, riduce l’ambito delle certezze razionali a quello delle conquiste scientifiche e tecnologiche. La Chiesa tuttavia non ha mai avuto timore di mostrare come tra fede e autentica scienza non vi possa essere alcun conflitto perché ambedue, anche se per vie diverse, tendono alla verità22.
13. Sarà decisivo nel corso di questo Anno ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato. Mentre la prima evidenzia il grande apporto che uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del Padre che a tutti va incontro.
In questo tempo terremo fisso lo sguardo su Gesù Cristo, "colui che dà origine alla fede e la porta a compimento" (Eb 12,2): in lui trova compimento ogni travaglio ed anelito del cuore umano. La gioia dell’amore, la risposta al dramma della sofferenza e del dolore, la forza del perdono davanti all’offesa ricevuta e la vittoria della vita dinanzi al vuoto della morte, tutto trova compimento nel mistero della sua Incarnazione, del suo farsi uomo, del condividere con noi la debolezza umana per trasformarla con la potenza della sua Risurrezione. In lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di salvezza.
Per fede Maria accolse la parola dell’Angelo e credette all’annuncio che sarebbe divenuta Madre di Dio nell’obbedienza della sua dedizione (cfr Lc 1,38). Visitando Elisabetta innalzò il suo canto di lode all’Altissimo per le meraviglie che compiva in quanti si affidano a Lui (cfr Lc 1,46-55). Con gioia e trepidazione diede alla luce il suo unico Figlio, mantenendo intatta la verginità (cfr Lc 2,6-7). Confidando in Giuseppe suo sposo, portò Gesù in Egitto per salvarlo dalla persecuzione di Erode (cfr Mt 2,13-15). Con la stessa fede seguì il Signore nella sua predicazione e rimase con Lui fin sul Golgota (cfr Gv 19,25-27). Con fede Maria assaporò i frutti della risurrezione di Gesù e, custodendo ogni ricordo nel suo cuore (cfr Lc 2,19.51), lo trasmise ai Dodici riuniti con lei nel Cenacolo per ricevere lo Spirito Santo (cfr At 1,14; 2,1-4).
Per fede gli Apostoli lasciarono ogni cosa per seguire il Maestro (cfr Mc 10,28). Credettero alle parole con le quali annunciava il Regno di Dio presente e realizzato nella sua persona (cfr Lc 11,20). Vissero in comunione di vita con Gesù che li istruiva con il suo insegnamento, lasciando loro una nuova regola di vita con la quale sarebbero stati riconosciuti come suoi discepoli dopo la sua morte (cfr Gv 13,34-35). Per fede andarono nel mondo intero, seguendo il mandato di portare il Vangelo ad ogni creatura (cfr Mc 16,15) e, senza alcun timore, annunciarono a tutti la gioia della risurrezione di cui furono fedeli testimoni.
Per fede i discepoli formarono la prima comunità raccolta intorno all’insegnamento degli Apostoli, nella preghiera, nella celebrazione dell’Eucaristia, mettendo in comune quanto possedevano per sovvenire alle necessità dei fratelli (cfr At 2,42-47).
Per fede i martiri donarono la loro vita, per testimoniare la verità del Vangelo che li aveva trasformati e resi capaci di giungere fino al dono più grande dell’amore con il perdono dei propri persecutori.
Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità, segni concreti dell’attesa del Signore che non tarda a venire. Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione e un anno di grazia per tutti (cfr Lc 4,18-19).
Per fede, nel corso dei secoli, uomini e donne di tutte le età, il cui nome è scritto nel Libro della vita (cfr Ap 7,9; 13,8), hanno confessato la bellezza di seguire il Signore Gesù là dove venivano chiamati a dare testimonianza del loro essere cristiani: nella famiglia, nella professione, nella vita pubblica, nell’esercizio dei carismi e ministeri ai quali furono chiamati.
Per fede viviamo anche noi: per il riconoscimento vivo del Signore Gesù, presente nella nostra esistenza e nella storia.
14. L’Anno della fede sarà anche un’occasione propizia per intensificare la testimonianza della carità. Ricorda san Paolo: "Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!" (1Cor 13,13). Con parole ancora più forti - che da sempre impegnano i cristiani - l’apostolo Giacomo affermava: "A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»" (Gc 2,14-18).
La fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino. Non pochi cristiani, infatti, dedicano la loro vita con amore a chi è solo, emarginato o escluso come a colui che è il primo verso cui andare e il più importante da sostenere, perché proprio in lui si riflette il volto stesso di Cristo. Grazie alla fede possiamo riconoscere in quanti chiedono il nostro amore il volto del Signore risorto. "Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me" (Mt 25,40): queste sue parole sono un monito da non dimenticare ed un invito perenne a ridonare quell’amore con cui Egli si prende cura di noi. E’ la fede che permette di riconoscere Cristo ed è il suo stesso amore che spinge a soccorrerlo ogni volta che si fa nostro prossimo nel cammino della vita. Sostenuti dalla fede, guardiamo con speranza al nostro impegno nel mondo, in attesa di "nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia" (2Pt 3,13; cfr Ap 21,1).
15. Giunto ormai al termine della sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di "cercare la fede" (cfr 2Tm 2,22) con la stessa costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm 3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede. Essa è compagna di vita che permette di percepire con sguardo sempre nuovo le meraviglie che Dio compie per noi. Intenta a cogliere i segni dei tempi nell’oggi della storia, la fede impegna ognuno di noi a diventare segno vivo della presenza del Risorto nel mondo. Ciò di cui il mondo oggi ha particolarmente bisogno è la testimonianza credibile di quanti, illuminati nella mente e nel cuore dalla Parola del Signore, sono capaci di aprire il cuore e la mente di tanti al desiderio di Dio e della vita vera, quella che non ha fine.
"La Parola del Signore corra e sia glorificata" (2Ts 3,1): possa questo Anno della fede rendere sempre più saldo il rapporto con Cristo Signore, poiché solo in Lui vi è la certezza per guardare al futuro e la garanzia di un amore autentico e duraturo. Le parole dell’apostolo Pietro gettano un ultimo squarcio di luce sulla fede: "Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere, per un po’ di tempo, afflitti da varie prove, affinché la vostra fede, messa alla prova, molto più preziosa dell’oro – destinato a perire e tuttavia purificato con fuoco – torni a vostra lode, gloria e onore quando Gesù Cristo si manifesterà. Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime" (1Pt 1,6-9). La vita dei cristiani conosce l’esperienza della gioia e quella della sofferenza. Quanti Santi hanno vissuto la solitudine! Quanti credenti, anche ai nostri giorni, sono provati dal silenzio di Dio mentre vorrebbero ascoltare la sua voce consolante! Le prove della vita, mentre consentono di comprendere il mistero della Croce e di partecipare alle sofferenze di Cristo (cfr Col 1,24), sono preludio alla gioia e alla speranza cui la fede conduce: "quando sono debole, è allora che sono forte" (2Cor 12,10). Noi crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a noi, vince il potere del maligno (cfr Lc 11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui come segno della riconciliazione definitiva con il Padre.
Affidiamo alla Madre di Dio, proclamata "beata" perché "ha creduto" (Lc 1,45), questo tempo di grazia.

Dato a Roma, presso San Pietro, l’11 ottobre dell’Anno 2011, settimo di Pontificato.

BENEDICTUS PP XVI

immagine Corbis
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