La seconda condizione: «L’uso esclusivo della liturgia del 1962. Custodire la pratica sacramentale che noi abbiamo attualmente (e incluso: ordinazioni, cresime, matrimoni). La terza condizione, «la garanzia di almeno un vescovo».
Nella lettera sono citate anche altre tre condizioni, considerate però non vincolanti: la possibilità di avere tribunali ecclesiastici propri di prima istanza; l’esenzione delle case della Fraternità dal rapporto con i vescovi diocesani, una commissione pontificia per la Tradizione dipendente dal Papa, con la maggioranza dei membri e il presidente favorevoli alla Tradizione.
Per quanto riguarda le tre condizioni considerate irrinunciabili, si comprende immediatamente come tutti i problemi siano rappresentati dalla prima. Dopo il motu proprio Summorum Pontificum è chiaro che i lefebvriani potrebbero continuare a celebrare con il vecchio rito, ed è anche evidente che – nel caso di regolarizzazione – non farebbe difficoltà la nomina di un nuovo vescovo.
Sia in questa lettera che è stata divulgata ma non era destinata alla pubblicazione, sia nel comunicato conclusivo del capitolo generale, si parla di errori del modernismo e dello stesso Concilio Ecumenico Vaticano II. Nell’ultima versione del preambolo, che lo scorso 13 giugno l’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale William Levada, aveva consegnato nelle mani del superiore lefebvriano Bernard Fellay, si chiedeva alla Fraternità di non criticare la nuova messa riconoscendone la validità e la liceità; di accettare il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica; di leggere non soltanto il Vaticano II alla luce della tradizione precedente, ma anche la tradizione precedente alla luca del Vaticano II.
Nel lungo colloquio avuto nel palazzo del Sant’Uffizio con Levada, Fellay già il 13 giugno aveva detto alle autorità romane che avrebbe avuto difficoltà a sottoscrivere il preambolo. La Fraternità ne ha discusso al capitolo generale (dal quale è stato escluso l’oltranzista e negazionista Richard Williamson) e Fellay ha potuto ricompattare la sua comunità dove era emerso negli ultimi mesi un dissenso interno contrario all’accordo. Nella risposta alle autorità romane, i lefebvriani non intendono chiudere la porta al dialogo, ma chiederanno altro tempo, nuovi contatti, ulteriori chiarimenti per arrivare a modificare il testo della dichiarazione dottrinale. Nel comunicato diffuso dalla Sala Stampa vaticana la scorsa settimana si parlava dell’attesa per la risposta in vista della continuazione del dialogo. Ma non è facile immaginare che un testo discusso dai cardinali della Congregazione per la dottrina della fede, attentamente esaminato e poi approvato da Benedetto XVI, possa essere oggetto di nuove discussioni e di cambiamenti.
«Il Concilio vaticano II è vincolante», ha affermato in un’intervista il nuovo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Gerhard Müller. «Si può discutere della dichiarazione sul rapporto con i media, ma le affermazioni sugli ebrei, sulla libertà di religione, sui diritti umani hanno delle implicazioni dogmatiche. Quelle non si possono rifiutare senza pregiudicare la fede cattolica».
Nella lettera inviata ai vescovi dopo il caso Williamson, nel 2009, Papa Ratzinger aveva scritto: «Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive». È l’ermeneutica della riforma nella continuità nella lettura del Vaticano II, che Benedetto XVI ha cercato di proporre subito dopo l’elezione. Rimanendo, al momento, inascoltato.
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