Venezia, Chiesa di San Giacomo dall'Orio, particolare |
di Paolo Facciotto (per La voce di Romagna)
A partire dal suo libro “Ministero della bellezza” sul sacerdozio cattolico, abbiamo parlato con don Francesco Ventorino, 79 anni, di un aspetto in questi giorni emerso con evidenza al Meeting, il rapporto e il dialogo con persone di fedi religiose diverse.
Don Ventorino, che cosa è la bellezza?
La bellezza secondo una definizione che risale ai medievali, è lo splendore del vero: quando l’invisibile, il Mistero, si rende visibile in ciò che l’uomo può vedere e toccare, ascoltare, e per questo lo seduce, lo convince, perché lo afferra secondo la modalità che è propria dell’uomo, attraverso l’esperienza. La bellezza rende credibile il vero e il bene perché splende talmente dell’umanità di qualcuno, da convincere. Per questo io parlo del sacerdozio come ministero della bellezza, perché il prete come ha ricordato recentemente Benedetto XVI alla fine dell’anno sacerdotale non è appena un ufficio. Il sacerdozio è sacramento, significa qualcosa di visibile che contiene l’invisibile, non è un simbolo. E’ qualcosa di visibile, come l’eucaristia: si vede il pane e il vino ma non è un simbolo, non rinvia a qualcosa che è fuori di essa ma a qualcosa di presente. Il prete nella sua umanità deve rendere visibile il volto del Padre, altro che ufficio, altro che amministrazione di uffici e di sacramenti: è lui stesso il sacramento. In questo senso parlo di ministero della bellezza: il prete ha questo compito innanzitutto, di rendere nella propria umanità visibile e credibile il volto del Mistero».
E’ coraggioso legare bellezza e sacerdozio tanto più dopo l’emergere di tanti scandali, proprio mentre il Papa lo rilanciava, con l’anno sacerdotale, come questione centrale della Chiesa. Come è potuto succedere che il sacerdozio non sia crollato sotto i colpi di quasi tutti i poteri del mondo?
«Alla campagna scandalistica si può rispondere giornalisticamente, colpo contro colpo, ma i colpi acuti o meno acuti si equivalgono perché è tutto sul piano mediatico. Invece quando il prete vive il ministero della bellezza crea nel rapporto che ha con la gente una certezza che non può essere minata dallo scandalo mediatico. La certezza morale è quella per la quale un uomo si può fidare di un altro uomo. Si acquista nel rapporto, e nessuno scandalo mediatico può metterla in crisi. Come la certezza che io ho di mia madre, basata sul rapporto personale che ho avuto con lei, nel quale matura una certezza di affidabilità, di credibilità che è intangibile a ogni altro argomento. Questa è la certezza della fede. All’inizio di “Si può vivere così”, Giussani dice che la fede è una certezza fondata sulla fiducia in un altro, non ha nulla da invidiare alle altre certezze - scientifica, filosofica eccetera. Non è meno certa, anzi, queste sono le certezze più certe senza le quali l’uomo non potrebbe neanche vivere. Di fatto gli scandali mediatici hanno messo in crisi il rapporto ministeriale laddove era già in crisi, dove la gente sospettava del prete, ma dove la gente ha acquisito questa certezza morale rispetto al prete, non è stata messa in crisi. Ditemi un oratorio che ha dovuto chiudere in forza degli scandali mediatici: la gente continua a mandare i bambini all’oratorio perché conosce il parroco, il viceparroco, di quelli sa che si può fidare. La migliore risposta allo scandalo è la bellezza ministeriale del prete, perché è quello che convince».
Quando si può dire che una chiesa è bella?
«Se la bellezza è lo splendore dell’invisibile, del Mistero, una chiesa è bella quando in quel luogo ci si avvicina di più al Mistero. Ma il Mistero in Gesù ha preso un volto, e quindi la chiesa tanto più è bella quanto più mi avvicina al Mistero cristiano, cioè al Mistero di Dio come Padre, come Figlio morto, crocifisso e risorto, come Spirito che vivifica e santifica. Voglio fare un esempio tra le chiese moderne, che sono le più discutibili: io vado spesso in Terrasanta e lì ci sono delle chiese costruite nel Novecento, le ha costruite un certo Barluzzi, un terziario francescano, architetto. Era un uomo di fede. Il suo capolavoro è la chiesa del Getsemani: basta entrare in quella chiesa e si soffre l’agonia di Cristo, anche attraverso le vetrate che fanno penetrare la luce ma fino a un certo punto, quindi si crea una zona di oscurità… Proprio come quel momento di sofferenza di Cristo in cui l’oscurità sembrava prevalere sulla luce della sua conoscenza di Figlio. Qui il Mistero ha preso forma visibile e aiuta l’uomo a credere».
Il ministero della bellezza mette in gioco un’altra questione rilanciata con forza da Papa Ratzinger: la liturgia. “Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”, ha scritto. Come giudica il motu proprio del 2007? Come si vive nel movimento la liturgia?
«Il Papa con questo motu proprio aveva inanzitutto l’intenzione, appunto, di restituire alla liturgia la sua bellezza originaria, perché non possiamo negare che c’è stata una degradazione formale nelle celebrazioni liturgiche che ha preso due volti. Lo spontaneismo, e invece non c’è nulla di più bello della formula stabilita, quindi quando il prete spontaneamente inventa formule credendo di dire cose più vere, più efficaci, si sbaglia, perché nella formula è sedimentata una sapienza pedagogica e teologica della Chiesa che viene dagli inizi. Il Papa ha voluto restituire la bellezza nel senso di restituzione di un rigore dell’osservanza delle formule liturgiche. Dall’altro lato, un richiamo appunto ad una bellezza che abbracci anche tutti gli altri aspetti, per esempio la musica: le musiche che sono prevalse dopo il Concilio, appunto per una pretesa di esprimere di più il sentimento di popolo anziché il Mistero, sono degradate, anche dal punto di vista artistico. Poi da parte del Papa c’è stata una preoccupazione di unità nella Chiesa: ci sono stati dei movimenti che vedendo la degenerazione che hanno preso certe forme post-conciliari, per reazione si sono aggrappati alla formula precedente al Concilio. Il Papa ha voluto che non si facesse della liturgia un terreno di scontro e di scomuniche vicendevoli. Un altro punto, la liturgia come pedagogia efficace della vita cristiana, della fede. C’è una formula che dice che “lex credendi est lex vivendi”, o “lex orandi est lex credendi” e poi “lex vivendi”: ciò che si prega è ciò che si crede, ciò che si crede è ciò che si vive, quindi è importante sorvegliare sulla liturgia perché la liturgia esprime ciò che si crede. Il movimento su questo non ha avuto una preoccupazione particolare perché è stato educato da don Giussani sempre così, ad una fedeltà alla formula tradizionale, senza mai una sbavatura di spontaneismi. Anche nel canto liturgico Giussani ha voluto sempre il gregoriano, i polifonici, le laudi medievali, e quando qualche volta ha introdotto alcuni dei nostri canti è stato sempre adeguatamente scelto. Io che sono vecchio, ho conosciuto don Giussani nel 1960 e l’ho visto celebrare le messe di prima del Concilio, dove i fedeli praticamente non facevano niente, solo assistere, però Giussani aveva trovato il modo intelligente di farli assistere. Le celebrazioni nel movimento hanno conservato la loro austerità, la loro verità che avevano agli inizi».
testo via messainlatino.it
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