di don Matteo De Meo
Sicuramente la genesi di gran parte del crollo della Liturgia, a cui da decenni stiamo assistendo nella Chiesa, è da rintracciarsi in ciò che Sua Eminenza il Cardinal Raymond Leo Burke ha acutamente evidenziato all’inizio della sua Lectio magistralis: “...un’esasperata attenzione rivolta all’aspetto umano della liturgia...” ovvero la sua secolarizzazione.
Essa si dettaglia in tutti quegli infiniti e variegati tentativi di “adeguamento” tra la fede e il suo linguaggio da una parte e il mondo dall'altra, tra liturgia e mondo. Un mondo, però, che viene sempre più concepito etsi Deus non daretur. E proprio Benedetto XVI ha affermato che “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal culto della liturgia che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur”.
Negli ultimi anni la secolarizzazione è stata analizzata, descritta e definita in molti modi, ma, per quanto ne sappia, nessuna di queste descrizioni ha sottolineato un punto che ritengo sia essenziale e che rivela in effetti meglio di ogni altra cosa la vera natura della secolarizzazione. La secolarizzazione, a mio avviso, è innanzitutto una negazione del culto. Sottolineo: non una negazione dell’esistenza di Dio, o di un qualche tipo di trascendenza e quindi di ogni sorta di religione. Se il secolarismo in termini teologici è un’eresia, si tratta innanzitutto di un’eresia sull’uomo. È la negazione dell’uomo in quanto essere che adora, in quanto homo adorans: colui per il quale l’adorazione è l’atto fondamentale, che allo stesso tempo “colloca” la sua umanità e la compie. È il rifiuto “decisivo” ontologicamente ed epistemologicamente, delle parole, che “sempre, dovunque e per tutti” sono state la vera “epifania” del rapporto dell’uomo con Dio, con il mondo e con sé stesso.
Questa definizione di secolarizzazione ha certamente bisogno di una precisazione. E ovviamente non può essere accettata da coloro che, assai numerosi, oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, riducono il cristianesimo in categorie intellettuali (“credenza futura”) o in categorie etico-sociologiche (“servizio cristiano al mondo”), e che quindi pensano debba essere possibile trovare non solo un qualche tipo di adeguamento, ma anche un’armonia profonda tra la nostra “età secolare”, da un lato e il culto, dall’altro. Se i fautori di ciò che fondamentalmente non è altro che l’accettazione cristiana della secolarizzazione sono nel giusto, allora naturalmente tutto il nostro problema è solo quello di trovare o inventare un culto più accettabile, più “rilevante” per la moderna visione del mondo dell’uomo secolarizzato. E tale è, infatti, la direzione presa oggi dalla stragrande maggioranza dei riformatori liturgici. Quello che cercano è un culto le cui forme e contenuti “riflettano” i bisogni e le aspirazioni dell’uomo secolarizzato, o ancor meglio della secolarizzazione stessa. Un aspetto che ha la sua ricaduta in un vasto raggio dalla ritualità, all’arte e alla architettura sacra.
Basti pensare che la “stessa incapacità dell’uomo di oggi di rapportarsi con il mistero” diventa un criterio per realizzare nuovi spazi liturgici (vedi Chiesa di Piano s. Giovanni Rotondo); o si traduce nel tentativo di entrare in dialogo con una certa cultura definita oggi proteiforme: “...l’architettura contemporanea è fluida, cangiante, proteiforme; così come un liquido si adatta al suo contenitore, essa si conforma alla sensibilità dell’artefice. Tutte le modalità di espressione artistica sono strettamente connesse alla soggettività...”- in questi termini si esprime D. Bagliani, docente al politecnico di Torino (opinione riportata in un articolo “Nuove Chiese, progetti da premio” di L. Servadio, in merito ai tre progetti pilota di nuove chiese vincenti alla quinta edizione del concorso Cei, 2009).
Un edificio può mettere in evidenza il silenzio, un altro un certo connubio fra natura e architettura (bioarchitettura), un altro un certo collegamento tra passato e futuro; oppure può adottare semplicemente forme stravaganti: una gemma di roccia poggiata al suolo, con un ingresso che invita ad un senso di protezione, simbologie ricercate e analogie, ecc.Allo stesso modo questa "incapacità di rapportarsi col mistero" può tradursi nell'adozione nell’ambito dell’arte sacra di un astrattismo proprio dell’arte contemporanea: l’arte nella sua astrattezza e fluidità tenderebbe pertanto ad esprimere “l’inesprimibilità” del sacro e del mistero: “...anche le parole più astratte del Signore quale, via verità e vita, potrebbero essere rivestite di forma e colore...” (vedi T. Verdon in un suo articolo comparso sull’Osservatore Romano del 12 gennaio 2008).
Sono solo alcuni esempi che ci rivelano un assoggettamento della liturgia, e quindi della stessa arte sacra e religiosa in genere, alla capacità di comprensione attuale. Il risultato è un vago spiritualismo, un simbolismo figurativo confuso e astratto, una liturgia intellettualizzata. A chiunque abbia avuto, sia pure una sola volta, la vera esperienza del culto, tutto questo si rivela subito come un semplice surrogato. Egli sa che il culto secolarista è semplicemente incompatibile con il vero culto. Ed è qui, in questo miserabile fallimento liturgico, i cui risultati terribili stiamo solo cominciando a vedere, che il secolarismo rivela il suo ultimo vuoto religioso e, non esiterò a dirlo, la sua essenza del tutto anti-cristiana.
La società è ormai pervasa da questa mentalità secolarizzata che sembra non risparmiare nemmeno la Chiesa, aggredendo particolarmente l’integrità della Liturgia. Quelli che dovrebbero essere chiaramente definiti e condannati come abusi liturgici diventano sempre più la norma. Si celebra in ogni luogo, in ogni modo, e in ogni forma. É difficile ormai trovare una celebrazione “cattolica”, nel vero senso della parola, “unica e universale”. Non entriamo poi in merito degli edifici e degli spazi liturgici, dove convivono tranquillamente, banalità sciatteria e bruttezza. É difficile definirli “casa” ancor meno “casa di Dio”. Luoghi che consacrati per il culto a Dio possono tranquillamente essere usati per qualsiasi “celebrazione”, o spettacolo, o teatro, o conferenza col risultato di far perdere definitivamente la loro identità di luogo sacro.
Ma non vorrei scadere nella mera polemica fine a se stessa!
Per cui, ripetiamo ancora una volta, la secolarizzazione non è affatto identica all’ateismo, e per quanto paradossale possa sembrare, può essere dimostrato che essa ha sempre avuto un desiderio particolare per l’espressione “liturgica”. Se, tuttavia, la mia definizione è corretta, allora tutta questa ricerca di “adeguamento” perviene ad uno scopo irrimediabilmente morto, se non addirittura senza senso. Quindi la formulazione stessa del nostro tema – “liturgie secolarizzate” – vuol mettere in evidenza, a mio avviso, innanzitutto una contraddizione interna, in termini; una contraddizione che esprime l’impossibilità stessa di una “liturgia secolarizzata”.
Rendere culto è, per definizione una azione, una realtà di dimensione cosmica, storica ed escatologica; è espressione, in tal modo, non solo di “pietà”, ma di una totalizzante “visione del mondo”. E quei pochi che si sono presi la pena di studiare il culto in generale e il culto cristiano, in particolare, (J. Ries, M. Eliade, per citare solo i più rappresentativi, che furono fra i primi nell’immediato post concilio a suonare il campanello d’allarme di una pericolosa ideologia di desacralizzazione all’interno della Chiesa stessa, e non vennero ascoltati) sarebbero certamente d’accordo che su un livello storico e fenomenologico questa nozione di culto è oggettivamente verificabile.Il secolarismo, ho detto, è soprattutto una negazione del culto. E, in effetti, se quello che abbiamo detto circa il culto è vero, non è altrettanto vero che il secolarismo consiste nel rifiuto, esplicito o implicito, precisamente di quella concezione dell'uomo e del mondo che proprio il culto ha lo scopo di esprimere e comunicare?
da Fides et Forma, tit. orig. La secolarizzazione Liturgica come negazione del Culto
immagine da fsspvenezia
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